Le foglie di coca

"E' drogato come un cavallo". L'urlo del telecronista era diretto a Pedro, ala destra dei Miliardarios di Cuenca, forte compagine equadoregna che disputava quell'anno ai Garroteros de la Plata l'ambito titolo di squadra campione del Sudamerica. In effetti Pedro sembrava incontenibile, ed era legittimo avanzare il sospetto che, a quota 2.500 metri sul livello del mare, un calciatore potesse naturalmente esprimersi in quella maniera: correndo su e giù per la fascia a cento all'ora e senza riprendere fiato, pressando, contrastando duramente, tirando calci di punizione, calci d'angolo e falli laterali, colpendo tutte le palle alte, respingendo e intercettando le basse, mettendosi in barriera, litigando con l'arbitro, con i guardalinee, con i compagni e con i raccattapalle, rifiutando nelle pause del gioco la spugna dalle mani del massaggiatore. Ma c'è da dire che, nonostante le prodezze di Pedro, i Miliardarios faticavano ad impadronirsi della metà campo avversaria.

I reparti perfettamente equidistanti, secondo i migliori canoni dell'antica tradizione uruguagia, i Garroteros ribattevano colpo su colpo, mordendo le caviglie degli avversari sulla propria tre quarti e ripartendo in fulminei contropiedi. Una squadra arcigna, difficile da superare; furba, ricca di elementi tecnicamente dotati. E anche un po’ fortunata; era infatti giunta in fondo al torneo grazie ai miracoli del portiere brasiliano Graminha nella semifinale contro gli Universitari di Belo Horizonte, l'equipe che pareva destinata a cancellare i Garroteros dalla competizione, per incrociare infine i bulloni con i Miliardarios, gli eterni rivali. La partita fra Garroteros e Universitari, disputata a porte chiuse al Monumental di Pucallpa, vide protagonista (per la legge dell'ex) proprio Graminha, che parò tutti i calci di rigore tirati dagli avversari.

Pedro era il detentore del Globo de Oro, massimo riconoscimento per un calciatore sudamericano. Ma la sua vita si era ormai trasformata in rituali appuntamenti quotidiani: l'allenamento, gli autografi per i fans, l'incontro con i giornalisti, gli inviti in televisione, per non dire dei pranzi e le cene a casa di imprenditori, ministri, presidenti. Si era sposato con un'italiana, conosciuta anni addietro, quando era stato in Europa con la squadra giovanile per una tournee estiva: non era ancora famoso, e Sandra riuscì ad anticipare gli osservatori di tutti i grandi club continentali. Nella lussuosa villa di Cuenca, Pedro e Sandra conducevano esistenze discretamente autonome, separate.

I Miliardarios prepararono la finale con un lungo ritiro. Le sedute atletiche si alternavano a quelle tecnico-tattiche. Pedro fece fatica a prender sonno la notte che precedeva la partita; telefonò a Sandra, più volte, ma l’apparecchio era muto. La mattina, breve sgambata su un campetto di periferia, poi la colazione; dopo il riposino pomeridiano, il trasferimento allo stadio, in corriera, tra due ali di folla esaltata. La finale, come  stabilito dalla Federazione, si giocava proprio all'Atauhalpa di Cuenca.

Quando le squadre sbucarono dal sottopassaggio, il cielo del Sudamerica e la sonnacchiosa quiete del Pichincha vennero squarciati da un boato interminabile. Duecentomila tifosi dei Miliardarios si alzarono in piedi, cantarono, saltarono, sventolarono le loro bandiere gialle-rosso-blu; poi cominciarono ad ondeggiare, poi di nuovo a saltare, e le strutture elastiche dell'impianto ressero a malapena l'impatto di quella massa eccitata, dirompente. Le squadre si schierarono al centro del campo. Pedro salutò il pubblico, strinse la mano a Obdulio Querela, capitano dei Garroteros, gettò verso la panchina il gagliardetto e il mazzo di fiori che aveva ricevuto in cambio di identici, formali doni. Gli sembrò di vedere Sandra in tribuna, vicino al palco delle autorità; poi distrasse il cuore e lo sguardo, affidandoli solo al vento e al frastuono, e si lasciò risucchiare per sempre nel vortice della terribile sfida.

"Ma è drogato come un cavallo", ripetè il telecronista. Pedro volteggiava da una parte all'altra del campo, inafferrabile. Graminha, verso la fine del primo tempo, compì un paio di interventi straordinari, decisivi. Si andò al riposo sullo zero a zero, e il risultato parve a tutti abbastanza giusto. Il pubblico si era leggermente acquietato, durante l'intervallo; sui gradoni dello stadio imperversavano i venditori ambulanti di sigarette e liquirizia; anche il vento era diminuito d'intensità.
   
Pedro, nel secondo tempo, non tornò in campo. Ma non chiese la sostituzione, né informò il medico della società di non essere più in grado di giocare. Dopo il fischio dell'arbitro, mentre tutti si apprestavano a rientrare negli spogliatoi, aveva guardato verso la tribuna. Sandra non c'era più. Uscì di corsa dallo stadio senza cambiarsi, cercò angosciato la strada di casa, ma finì per perdersi nei vicoli stretti e affollati di Cuenca; si infilò vanamente nei labirinti delle vecchie cotonerie abbandonate; sentiva uscire, dalle finestre spalancate, la voce del telecronista e l'urlo dello stadio, e stava già per pentirsi di quell'inutile fuga, quando incontrò Sandra nei dintorni di una piccola piazza, al tavolino di un bar, dove da sola leggeva il giornale bevendo una tazza di te’ alle foglie di coca; raggiungendola, gli parve di leggere nel suo sguardo come un velo di tristezza, o un rimprovero, o forse semplicemente un'ombra di diffidente timore.

Mans

Gianni Brera

"Il gioco del calcio è una sorta di mistero agonistico traverso il quale si nobilitano quelle che un tempo erano le mani posteriori dell'uomo"


1919-1982 | Biografia