La domenica del derby

“Chi si è mangiato la salamella?”, è la domanda retorica che Giovanni formula a se stesso, esplorando scientifica­mente gli spazi siderali del freezer, cercando e non trovando il cartoccio bianco e umido, tastando pacchetti e confezioni sperando nel morbido approccio o di abbrancare la corda che unisce le estremità della salamella. In effetti il freezer è ben frequentato, assomiglia a un club esclusivo alto-bor­ghese, bot­tiglie di champagne dialogano in francese con il camémbert, tavo­lette di cioccolato Lindt e spezzoni di raffinato Emmenthal si scambiano noti­zie su come aprire conti cifrati nelle banche svizzere, solo un Bauer al limone guarda di traverso la Mazda da cinque volts (“cosa ci fa qui?”) che a sua volta ha i modi ar­roganti e orgogliosi di un ex-dissidente emigrato dall'inferno di Chemnitz, e del resto non è detto che si senta a proprio agio in quella compagnia, tanto più che al suo fianco, vicino al polo negativo, un etto di pecorino trasuda beato come un italiano me­dio in va­canza, e ammorba i saporosi rigurgiti di una moz­zarella di bufala, adagiata sul piattino burroso dove prima c'erano due grappoli d'uva e prima ancora (“possibile?”, si interroga Giovanni) quel che ri­maneva dell'ultima salamella.

“E allora cosa mi porto allo stadio?”, piagnucola, “cosa metto nel pa­nino?”. “Io”, si propone il camémbert, “no io”, lo spinge via la mozza­rella di bufala, “porta me, ti prego, non sono mai stata a San Siro”, spunta fra i due una tavo­letta di Lindt. “C'è il derby, vero?, unoicsdue, pronostico facile”, si candida discretamente e per ultimo il pecorino rammollito. Dopo lungo meditare, palpare, annusare ed as­saggiare, Gio­vanni agguanta la Mazda, che non oppone re­sistenza e si lascia col­locare dolcemente nel bagagliaio della radiosveglia, dove tuttavia non credeva di trovarsi circon­data da tre Superpila vocianti e conformiste (“Milan, Milan, Inter, Inter!”, cantano già, all'unisono e a squarciagola), e “dunque mi ha incastrato!”, è il pensiero acido e rancoroso che rivolge a Gio­vanni, un attimo prima di veder calare sopra di sé il si­pario e di sentirsi sfiorare il polo positivo da un'appiccicosa linguetta di scotch.

“Comprerò pane e porchetta fuori dallo stadio”. Giovanni non ricor­da già più dove ha dimenticato la microscopica radiosveglia, ma non ha tempo di cercarla, si infila il cap­potto, si avvolge la sciarpa al collo, spolvera ben bene e riarrotola la bandiera e poi parte all'avventura, av­vertendo già i primi, tipici sintomi di questa giornata speciale, le gambe che tremano, le vertigini, la fame nervosa, l'ansia di arrivare prima degli altri, e trovare un biglietto e un como­do posto di gradinata, in as­se perfetto con la linea di gesso tracciata sul campo, a metà campo.

E' una giornata speciale, per combinazione la domenica del derby quest'anno cade proprio nel giorno di Sant'Am­brogio, purtroppo però la nebbia è fittissima, il freddo gla­ciale, “e mai una volta che ci sia il so­le, il sette di dicembre”, si rammarica Giovanni, mentre cerca di anne­gare l'angoscia nel Campari, in un bar di via Torino all'altezza del tempio civico, quando a occhio e croce non saranno ancora le nove e per strada circola solo qualche tram (vuoto), e mentre il fiorista di San Satiro beve un caffè in piedi al suo fianco e si lamenta del freddo e con­trolla sul Giorno le previsioni per oggi. “Solo cinque metri di visibilità fuori e qualcuno di più in città”, ha il tempo di proferire prima che una goccia di Lavazza gli si incagli tra la faringe e i polmoni, costringen­dolo a tossire e a bestemmiare. “Infatti. Avete visto il duomo?”, si intromette il barman, “la madon­nina: sparita, volatilizzata. Cioè, non si capisce se è sparita o se la neb­bia è talmente fitta che non si vede. Sia come sia”. Giovanni neanche lo ascolta, “se continua così è difficile che si giochi oggi pomeriggio”, dice rivolto al fiorista, con gli occhi di uno cui piacerebbe essere tranquillizzato. Quell'altro, ormai sul punto di soffocare, si limita a mostra­re il pugno, di­varicando faticosamente l'indice e il medio in segno di vittoria, e Giovanni non può fare a meno di toc­carsi qua e là e di por­tare subito dopo la mano allo stomaco, dove una ter­ribile fitta nervosa lo ripiomba nella catalessi fanatica e pessimista, nel terrore, e in ultima analisi sono proprio questi i sintomi più evidenti che oggi, proprio oggi, si gioca l'attesissimo derby del girone di andata.

Fino a piazza Duomo sono quattro passi, una sola fermata di dician­nove, Giovanni li percorre a piedi, in via Meravigli prenderà il venti­quattro, destinazione Axum (piazzale dello Sport), certamente nota che l'atmosfera si sta vivacizzando, c'è qualcosa di elettrico nell'aria, qua e là si formano capan­nelli, la gente discute, “stasera oltretutto c'è anche la prima della Scala”, è davvero una giornata speciale. Noterebbe an­che, se avesse un briciolo di sensibilità, che in piazza Duomo sta acca­dendo qualcosa di strano, pare che mezza città si sia svegliata all'alba per darsi appuntamento lì. “Ci saranno i bagarini che vendono gli ultimi ta­gliandi”, pensa Giovanni, deve verificare, anche lui purtroppo è tuttora senza biglietto, per quanto non disperi, anzi. “Quanto per un popolare?”, domanda al primo che capita.“Cosa?”, gli risponde quello, in effetti c'è molto rumore, bi­sogna gri­dare. “Un popolare, dicevo. Quanto chiedono?”, l'informazione è fonda­mentale, “sa, più di cinquecentomila non sono di­sposto a spendere”. L'uomo è del tutto disinteressato alla questione, come tutti gli altri che affollano la piazza guarda mesto verso il cielo, anzi verso le guglie del Duomo, anzi per essere precisi verso la guglia più alta del Duomo, dove si nota la mancan­za di qual­cosa, anzi di qualcuno, per la precisio­ne della madonnina, faro della necropoli, stella della cattedrale, pennac­chio lucente nei cieli grigi e fatiscenti della Padania glaciale e nebbiosa. Gio­vanni si avvicina a un gruppo di anziani, che argomentano logicamente. “E' inutile, non c'è bisogno del cannocchiale, la nebbia si è alzata di un pelo, si vede benissimo che non c'è”, sentenzia uno. “Com'è possibile, ieri sera c'era ancora, l'ho vista con i miei occhi, la piccinina”, interviene un secondo, in lacrime. “Miracolo, miracolo”, catechizza un terzo, esasperato, e nega di aver udito nel cuore della notte il suono della sirena di un antifurto pro­ve­nire esattamente da lassù, dalla cima del Duomo. “Scusate, a nessuno avanza un popolare? Offro quattrocentocinquantamila”, si intromette Giovanni.  


“Su, circolare, circolare”, interviene finalmente un vigile, che spinto­na Giovanni verso l'imbocco della galleria: “se a lei interessano i bi­glietti di loggione per stasera vada a met­tersi in fila come tutti gli altri, davanti al teatro, anche se credo che sia troppo tardi, ormai”. Giovanni si trova suo malgrado incanalato nella fiumana spontanea che sta dilagando chiassosa e perplessa in piazza della Scala. “Ehi, non spinga, per favore, le cedo il mio po­sto in fila, non sono un meloma­ne”, urla nell'orecchio di quello che lo segue, “lei sembra morso dalla taran­tola, abbia fede, troverà posto senz'altro”. Invano cerca di divin­colarsi e tornare indietro, adesso ci vorrà mezz'ora prima che passi un altro ventiquattro, ne ha appena visto uno con la coda dell'occhio, che si al­lontanava verso piazza Cordusio. Rat­tristato, bada perlomeno a non farsi travolgere, e si lascia rimorchiare dol­cemente fino in piazza della Scala, e certa­mente nota, anche se non possiede grande spirito di osser­vazione, che da tutte le strade adiacenti sbucano uomini e donne, e co­me api impazzite si vanno ad ammassare intorno al favo, l'aiuola siste­mata nel centro della piazza, che cir­conda, o per meglio dire cir­condava la statua di Alessandro Manzoni. “Almeno il piedistallo, c'è ancora?”, si informa uno che domanda di rimanere anonimo. “Quelli davanti dicono vi siano tracce di una collutta­zione, l'Ales­sandro è robusto, non si sarà lasciato portar via così fa­cilmente”, echeggia voci infondate un improvvisato interlocu­tore. “Ma no, non l'hanno rapito, è lui che se n'è andato, quan­do ci sono gli spettacoli la sera non riesce a dormire”, lo sbu­giarda un terzo che al posto del Manzoni si sarebbe comportato nello stesso modo. Un quarto zittisce tutti quanti: “ha lasciato un biglietto, se non altro dice che tornerà, forse questa sera stessa, al più tardi domani, dice an­che di avvisare i parenti”. Giovanni approfitta della situazione per salire sul piedistallo vacante, “cinquecentomilacinquecento per un popola­re, ultima offerta”, arringa la folla sottostante, e nel frat­tempo, in mezzo alla gente, ha fatto capo­lino il borgoma­stro (“almeno lui c'è ancora”, sussurra un neonato), ac­com­pagnato dalla corte dei miracoli, e insieme alle autorità (che nulla confermano e nulla smentiscono circa la “presunta” scomparsa del Manzoni) sopraggiungono anche le prime avanguardie della polizia a cavallo. Un poliziotto a piedi in­tima a Giovanni di scendere dal basa­mento, con modi pe­rentori e sbrigativi, anzi ultimativi: “o lei va a ba­garinare altrove, o mi segue in questura. Anzi, senz'altro mi segue in questura”, e lo spintona dentro il cellulare. “No guardi, è un tragico errore, mi lasci pure in via Me­ravi­gli”, si ri­bella Giovanni, che per fortuna riesce a chiarire l'equivoco e a farsi ac­compagnare fin sulla piattaforma po­ste­riore, fino alla macchinetta obliteratrice del ventiquattro fermo in via Meravigli, ultimo di una lunga carovana di tram in sosta forzata, impossibilitati a disimpicciarsi dall'abbraccio fatale delle nebbie e delle folle incredule, scese per strada a farsi domande e darsi risposte, in molti casi rispondendo con altre domande.


Bisognerebbe esserci passati, per capire cosa significhi al­zarsi all'alba la domenica del derby, quando guarda caso co­in­cide col giorno di Sant'Ambrogio, che per tradizione è anche il giorno che inaugura la stagione della Scala, e sapere che non ci sarà modo di scongiurare e tanto meno di placare l'emorragia di ansie e di pessimismi che già ri­gonfiano la bocca dello sto­maco; e soprattutto cosa significhi ritrovarsi intorno alle undici sul tram (destinazione Axum ben in vi­sta, grazie a un cartello sistemato davanti, appeso al vetro, di fianco al conducente) fermo, incolonnato, imprigionato nelle strade del centro, dove impaz­zano una quantità imprecisata di fenomeni indecifrabili, dove le voci si rincorro­no, si accavallano e si afflosciano da sole, mentre svolazzano le civette della polizia, i blindati dei carabinieri, la fanteria a cavallo dell'esercito della salvezza, le prime edizioni straor­dinarie dei giornali, quando il city-mana­ger ha aperto uffi­cialmente la caccia alla volpe, la caccia alle streghe, la caccia ai latitanti, la caccia al tesoro, sì, anche la caccia al tesoro, in fondo si tratta pur sempre di una sagra pae­sana. “Quanta gente senza biglietto”, pensa Giovanni osservando preoccu­pa­to e malinconico il corteo che fende impietoso via Mera­vigli, raddop­piando in corso Magenta e decuplicando non appena si materializzano le prime bancarelle che annuncia­no la prossimità della basilica, che è poi esattamente quella dedicata al santo di cui oggi si festeggia l'onoma­stico. “In questi casi sarebbe opportuno che l'ATM program­masse servizi alternativi, percorsi meno ingolfati”, esplode Giovanni in faccia al conducente, appena scorge un vendi­tore ambulante di torroni e zucchero filato, all'incrocio con via Nirone.

“Meglio andare a piedi, faccio prima”, si congeda alfine e, ancora in precario equilibrio sull'ultimo scalino della porta centrale del Jumbo in avaria, viene inevitabilmente risuc­chiato dal turbinio caramelloso e colorato dei bambini che, tenendo per mano i padri, e strattonando e spingendo e spendendo, saltellano di qua e di là, da un carretto all'al­tro, fra un mangia­fuoco e una pesca di beneficenza, fra un arro­tino e un antiquario. “Biglietti, bigliettiii !”, Giovanni si precipita verso il chio­sco artigia­na­le da cui proviene l'urlo, una garitta di plastica e ve­tro, e fa capolino allo sportello. “Un popolare, grazie, quanto fa?”, chiede ansioso, ha già il portafo­glio in mano, ha già contato i soldi e calcolato il re­sto. “Solo lotteria di capodanno, biglietti vincenti, vengano lorsi­gnori”, lo disinganna il cieco, ignorandolo. Ma ecco che, improvvisi e simultanei, i due campanili della basilica chiamano il popolo a raccolta. “Inizia la messa, non se la perda che oggi è in rito ambro­siano”, è il consiglio disinteressato che un passante, inosser­vato dai più nonostante l'aureola e il costume da arcivesco­vo, non manca di rivolgere a Gio­vanni, pur nell'urgere tra­volgente della falcata, nell'empito della fuga. “I campanari di una volta erano più delicati”, fruga nella propria me­moria una donna che oltrepassa il mercimonio sfrecciando nella dire­zione opposta a quella del passante ma­scherato, frenando a pochi passi dalla pusterla, dove Gio­vanni ora nota un gesticolare di monaci e di ca­nonici, anzi più che altro un litigioso confabulare. “Eccoli, gli ultras, si­curamente stanno discutendo sulle ultime scorte di ta­gliandi”, si illumi­na, avvicinandosi al crocchio. “E' andato di qua”, suggerisce l'arciprete, “no, di là”, assi­cura il sacre­stano, “dividiamoci”, li mette d'accordo un mo­naco riformato, e tutti cominciano a correre indiavolati, mentre le campane propagano l'al­larme e ognuno tutt'in­torno ha ormai saputo che Sant'Ambrogio, di­velto il pre­zioso e argenteo scri­gno nel quale era rinchiuso da sedici se­coli, è scappato con l'oro dei seguaci, ingrato e imperscru­tabile. “Proprio il giorno della sua festa, vecchio birichino”, piange lacrime dolorose e inconsolabili di madre tradita, sulla spalla di Giovanni, la donna di prima, nello sfondo attonito della basi­lica annerita di smog e gocciolante di muffa e di brumosa fo­schia caliginosa. 

A mezzogiorno Giovanni è in solitario cammino verso la sua meta periferica, sul lungo viale che da piazzale Lotto conduce fino allo sta­dio, finalmente un angolo di metropoli silenzioso, deserto, non con­taminato dai clamori del centro, si vedono macchine posteggiate qua e là, ma poche, sono quelle dei resi­denti, solo il muro di cinta dell'ippo­dromo ha qualche fremito nervoso, più che altro è bello ascoltare il suono ovattato dei passi sull'interminabile tappeto di foglie secche, e Giovanni pregusta un pomeriggio di gloria, “magari a quest'ora è possi­bile trovare un popolare a prezzo di saldo”, ed è vero, non c'è in giro anima viva, l'atmosfera è surreale, del resto anche la nebbia contribui­sce, ma è “la quiete che precede la tempesta”, e Giovanni comincia a ri­passare i cori della curva, a sventolare la bandiera.

“Ehi, lei, mi dica ...”, l'attenzione di Giovanni è d'un tratto richiama­ta dalla voce di un uomo, sporgente dalla sommità di un palazzo che si intravede appena ai margini del percorso: “... mi dica, lei viene dal cen­tro, non è così?”. “Sì, vengo dal centro”, conferma Giovanni. “Senta, è vero che hanno sospeso la prima del Barbiere di Siviglia, questa sera, sa, avevo un biglietto di platea, in se­conda fila, alla radio hanno intervistato il capo della polizia, ha detto che siamo in emer­genza totale, che c'è il rischio di inci­denti ...”. “Sì d'accordo, c'è la nebbia, ma oggi si gioca, dia retta a me, è sempre andata così”, risponde Giovanni con l'aria di uno che la sa lunga, e ag­giunge “pensi un po', è il mio nove­cente­simo derby d'andata, è dal primo dopoguerra che non ne perdo uno”, ma non fa in tempo a smet­tere di vantarsi che quell'altro, con un tonfo sordo, è rovinato al suolo a pochi metri da lui, e vi giace esanime, incosciente, proba­bilmente in coma o in prognosi riservata. “Comunque, vinca il migliore, e non lo dico per scara­man­zia”, si congeda Giovanni, preoccupato di raggiungere un fur­goncino fumante e benaugurante, che si staglia come un mi­raggio in quel pallido e spesso orizzonte. “Pane e por­chetta”, ordina, paga e ringrazia.

E' nel piazzale antistante la voragine dove, fino a qual­che ora fa, si er­geva imponente e minaccioso lo stadio di San Siro, che Giovanni viene quasi investito da una limousine lunga quindici metri, recante a bordo, oltre all'autista, un uomo dall'aria distinta, ottocentesca, e una donna avvolta in un lungo scialle dorato, espressione molto devota. “Scusi signore”, si informa l'autista, “la strada per San Si­ro?”. “Come sarebbe a dire la strada”, si abbassa Giovanni per meglio vede­re in faccia il suo interlocutore, “siamo a San Siro, non vede?”, e indica l'informe spazio occupato dal vuoto che galleggia al di sopra del gigan­tesco precipizio. “Io non vedo niente, Ambrogio”, interviene severo l'uomo che freme sul sedile posteriore. “Ma Alessandro, non vedi niente perché c'è troppa neb­bia, e poi non hai gli occhiali, te li dimentichi sempre”, la donna al suo fianco prende immediatamente le difese dell'autista. “Tu Mary stai zitta, che nemmeno conosci il significato di certe paro­le, tipo derby, football, penalty, e inoltre non sei mai venuta allo stadio, e poi se c'è qualcuno che ha sempre la testa fra le nuvole sei proprio tu”, tronca definitivamente il discorso l'uomo, con piglio autoritario. 

“Scusi, non ci siamo già visti un paio d'ore fa, davanti al cieco che vendeva biglietti della lotteria?”, fa Giovanni ri­volto all'autista. “Può darsi, è li che ho acquistato gli ultimi tre popolari, a quindicimi­la, ma adesso temo che siano tagliandi contraf­fatti”. “Ambrogio, muoviamoci che è tardi, non troviamo più un buco per posteggiare”, si innervosisce quello dietro, che sem­bra il capo, “e tu Mary copriti le gambe, che ti vedono tutti”. Si immischia un carabiniere (“documenti, per favore”), bal­zato fuori da una gazzella in corsa, ma non fa in tempo a rial­zarsi che la limousine è già ripartita sgommando, la­sciando evidenti segni sull'asfalto e spruz­zando Giovanni di vapori acidi e asfissianti. “E lei cosa sta cercando, non vede che è tutto transennato, che c'è di­vieto di accesso? Lasci lavorare tranquillamente la scientifica”, si sgola l'appuntato, squadrando Giovanni dalla testa ai piedi. “Appuntato, venga, abbiamo trovato il cerchio di centro­campo, a ot­tanta metri di profondità, vicino alla cabina del ra­diocronista”, soprag­giunge affannata ed eccitata una re­cluta dell'ultima ora. “Dunque oggi non si gioca?”, chiede Giovanni. “Ehm, ci sono scarse probabilità, ma tocca all'arbitro deci­dere”. “Maledetta nebbia”.

Rassegnato e assetato, Giovanni dà l'ultimo morso alla por­chetta e torna verso casa, obliterando sul Jumbo fermo al ca­polinea di Axum, che poi decolla stancamente, destina­zione Gratosoglio, ben sapendo di essere destinato ad im­pigliarsi fra gli stormi di piccioni curiosi, nelle strade del centro, o magari ad essere dirottato altrove, per lasciare la precedenza ai rin­forzi dell'aeronautica militare, in questa giornata di strapaese e di emergenza, e sarà forse necessario organizzare un atter­rag­gio di fortuna, presumibilmente dalle parti di Piazza Cinque Giorna­te, se esiste ancora, se non è stata trasferita in periferia o all'estero, co­mun­que al sicuro, se già non vi hanno alzato le barricate.

“Chi si è bevuto il succo di frutta?”, è l'innocente e retori­ca domanda che Giovanni pone a se stesso, esplorando le profon­dità del freezer, do­ve l'allegra compagnia sta facendo baldoria, e il camémbert offre altre coppe di champagne alla mozzarella di bufala, che finalmente è riuscita a liberarsi dall'abbraccio mortale del pecorino ammuffito e trasudante, e mentre il Bauer al limone corteggia, con fascino teutonico, una tavo­letta di Lindt mingherlina e fondente, che peraltro ha fatto girare la te­sta anche al sofisticato ed elegantissimo Emmenthal, il quale tuttavia, fra tutti, pare l'unico rimasto sobrio, e ciò dipende probabilmente dal fatto che mentre gli altri brindavano a champagne lui, dichiarandosi astemio, si scolava un intero succo di frutta, anzi quello che ne rimane­va, esat­tamente all'interno della bottiglia che ora giace vuota (“possibile?”, si interroga Giovanni) e di traverso a fianco del piattino burroso, dove prima c'erano due grappoli d'uva e, prima ancora, l'ul­tima salamella, e dove adesso invece c'è la Mazda che, fuggita una volta dalla periferia in­dustriale di Chemnitz, non credeva di doversi un gior­no sottrarre dall'aggressiva morsa di tre Superpila, fanatiche e sguaiate; le quali, all'interno della radiolina che Giovanni aveva dimen­ticato proprio nel freezer uscendo di casa, si stanno dispe­rando per le notizie che arri­vano da San Siro, dove il Milan e l'Inter avrebbero già sprecato numero­sissime occa­sioni da rete, se la visibilità non fosse nulla, se l'arbitro non avesse chiamato le squadre al centro del campo, rispedendole negli spogliatoi e rinviando a chissà quando la di­sputa del match, dell'attesis­simo derby d'andata, con sollievo dei tre unici spettatori presenti e pa­ganti, an­noiati e infreddo­liti. “Maledetta neb­bia, e maledetta domenica”, im­preca Gio­vanni, chiudendo violentemente lo sportello del freezer.

Mans

Il Gianni

Qualche mese fa. Una città come tante, senza identità, una città una volta industriale, nell’Alto Milanese. Elezioni comunali imminenti. Una tarda mattina di sabato. Via Milano è come al solito animata di massaie con la busta della spesa, poi donne d’età indefinibile che tra un po’ scompariranno nell’ingresso laterale della chiesa; mentre cercano stancamente d’avviarsi ragazzotti e pulcelle, hanno un altro sprint le quarantenni super truccate che sfoggiano la prima abbronzatura, e i tacchi sul selciato sembrano proporre un ritmo sudamericano ‘gardami-guardami-guardami’. Perché non accontentarle? Poi giovani mamme coi bambini in carrozzina e figli più grandicelli che imparano a camminare e a correre dietro il cagnolino di turno (sì Matteo, adesso ti porto in piazza dove ci sono i giochi!). Pensionati frustrati e incazzuti si mescolano ad avvocati e professionisti coi pacchi di giornali, economisti in carriera con tanto di “Sole24ore” sottobraccio, patente di nobiltà. Uomini politici e  politicanti locali, aficionados di partito e perditempo come me. Lungo la via si affacciano due o tre gazebo, sono le nuove tende di propaganda, con strilloni che invitano ad avvicinarsi, ma è difficile vincere la ritrosia lombarda, neppure attira la fettina di prosciutto e le scaglie di grana padano.

A un certo punto intorno al gazebo di centro si leva come un brusio, un’agitazione insolita. Dal bar di fianco una cameriera slava, occhi dolci, sta faticosamente traghettando l’aperitivo con un vassoio gigantesco. I bicchieri se ne stanno in perfetto equilibrio, persino le bollicine del prosecco sembrano acquattarsi per mantenere l’ordine assoluto: bisognerebbe applaudire dopo questo numero che si ripete tre volte. “Sta per arrivare, sta per arrivare!”. Nella melassa del solito tran tran quel richiamo e poi il chiacchiericcio che ne segue ha il valore d’uno sciame di vespe, ma a tale puntura sonora si riscuotono le coscienze, sia pure non ancora civili. Perché c’è l’attesa del vip, “speriamo non della politica!” sento mormorare. Solo qualche starletta televisiva o qualche poltronista  di grido riuscirebbe a perforare il guscio dell’apatia generale, i pensionati e l’avvocato occhialuto si avviano al gazebo e incominciano se non altro a inquadrare nel mirino il terzo prosecco di sinistra. L’Aristide, uno dei pensionati più svegli, che non molla mai la bicicletta, svela finalmente l’arcano. Lui conosce il nome di chi verrà, l’ha letto sulla “Prealpina” questa mattina, è un segreto di Pulcinella, eppure lui lo vende alla grande, riscuotendo ampi consensi. Ma va là, propri lü?  Sale il brusio e l’attesa.

Ormai il nome è sulla bocca di tutti, ma sarebbe stato sufficiente leggere il volantino giallo in distribuzione per apprendere la notizia. “Verrà offerto ai cittadini un aperitivo. In appoggio al candidato sindaco ci sarà la presenza dell’onorevole…”. Già, onorevole, ossia chi è degno d’onore… viene da ridere a pensare a quante brave persone si sono abbarbicate agli scranni del Potere… Sarà presente l’onorevole Gianni Rivera – ma Panzòn, te se propri sicur? L’è lü? -, ecco sputato il rospo, anzi il Principe Azzurro. Perché quel nome passa dalle labbra all'orecchio al cuore. E Rivera, il Gianni potrebbe essere diventato il Presidente di Vattelapesca, ma a noi non importa un fico secco. Lui è altro, è un pezzo d’Italia, nel bene e nel male.

“Ma l’è ancora un bel om, porcu can! – così si esprime la massaia settantenne –; “è ancora un bel figo” – così la quarantenne in minigonna - ; “Forza Milan!” – è il coro asmatico dei tre pensionati che hanno seguito i consigli dell’Aristide. In effetti l’onorevole è ancora in tiro, e nell’abito blu carta da zucchero perfettamente tagliato sembra più alto e non troppo imbolsito dall’inattività agonistica. Quanti anni avrà? Seguono calcoli complessi dei pensionati che ora sono diventato un gruppetto di scalmanati  (Alura, mi mi son sposato quando il Milan ha vinto la Coppa quindi… Ma no Ezechiele, la mè tusa, la Marcella, l’è nata nell’anno del secondo scudetto… quindi il Gianni… avrà non più di …). Come per le signore d’antàn nessuno osa chiedere l’età precisa al Rivera, ma l’età non conta. L’uomo che è miracolosamente apparso davanti ai vassoi dell’aperitivo è in effetti un uomo in forma, abbronzato,  sorriso aperto, capello ancora folto e brizzolato, très chic, vraiment, bravò! Sono tante le mani che stringe, io mi avvicino e non so proferire parola. Però ci tengo a toccarlo, come se dal suo corpo emanasse un’energia positiva, che ancora non so definire. Per fortuna nessuno parla di politica, nessuno. Neppure il candidato sindaco osa proporsi e sceglie un posto di retroguardia, la scena non può essere sua …

Sembra una riunione di famiglia e non solo di tifosi del diavolo. È sorprendente quest’attaccamento, come se il calcio di quegli anni avesse radici davvero popolari, rappresentasse in qualche modo quell’Italietta onesta e in bianconero. In breve Rivera è assediato e persino i pensionati più assatanati hanno dimenticato il flut prescelto (ma solo per un attimo, poi la mira si sposta sulle magre fettine di prosciutto). Qualche nostalgico filologicamente ferrato, ricorda al Gianni questo o quell’episodio, io ero presente a quel gol … mi ricordo il suo esordio… io c’ero… Rivera parla poco, risponde a monosillabi, capisce che è il ricordo che conta, quel grumo di emozioni che è meglio non sprecare con troppe parole.

Stupiscono le donne d’ogni età che come api ronzano anzi danzano intorno al polline tanto amato d’un azzurro intrigante. Forse un po’ il pavone, il Gianni, dice una gnocca abbronzatissima; ma che, l’è classe naturale le risponde mamma sua. Si sprecano i confronti con Clooney e con altri brizzolati a me ignoti. Intanto la via si è rianimata di un vortice di simpatia. Persino le giovani mamme s’avvicinano, e compare qualche papà, forse avvisato da radio popolare, che esce dal bar o dalla libreria circostante per controllare se c’è davvero il Rivera. Mi intenerisce un papà che issa il bimbetto sulla schiena come per vedere Gesù. Afferro qualche battuta del dialogo:
Vedi Lorenzo quel signore là? Era … è un grande calciatore.
Davvero? E di quale squadra?
Del Milan!
Un calciatore forte?
Sì.
Forte quanto?
Forte forte forte.
Come Totti?
Di più.
Come Ibrahimovic?
Di più.
Impossibile papà, allora era bravissimo.
Sì Lorenzo, chiedilo al nonno…
Bravivissimo come Messi?
Ecco, come Messi. Almeno per me… e… per il nonno.

Il bimbetto guarda quell’uomo vestito d’azzurro e poi guarda suo padre.
Il padre pensa a suo padre e si ritrova piccolo come Lorenzo. E se ne sta lì in silenzio come un baccalà. E io ascolto e mi sembra d’essere in un film in bianco e nero.
  
Alb

Indro Montanelli

"Spesso si dice che l'opinione pubblica è indignata. E magari è anche vero: al mattino. Alla sera siamo tutti a guardare la partita"


1909-2001 | Biografia

John Charles e Beppe Fenoglio














Darwin Pastorin
Beppe Fenoglio, tifoso della Juve e di Charles
L'Indice dei libri del mese (22 febbraio 2013)

Il cinema e il calcio continuano a interessarlo: trascinato dagli amici, è diventato filo-juventino, allo stadio, a Torino, vede dal vivo il debutto italiano del centravanti gallese John Charles, il "Gigante Buono": scherzando, dirà di portare sempre mutandoni lunghi "alla John Charles".