Alberto Moravia: “er Garincha de noantri”

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Prodotto del vivaio romano, soprannominato dai tifosi capitolini “er Garincha de noantri” per la leggera zoppia, eredità di una grave malattia che lo aveva colpito da ragazzo e che lo accomunava alla grande asso brasiliano. Oggi semidimenticato, per moltissimi anni è stato il centravanti per eccellenza del calcio italiano vincendo ripetutamente la classifica cannonieri del campionato.

Forte di testa e padrone dei fondamentali tecnici, si impose alla ribalta giovanissimo. Vederlo giocare era un piacere. Quando entrava in area di rigore accorciava il passo e aspettava che il portiere gli uscisse incontro per metterlo a sedere con una finta; a porta vuota si concedeva il lusso di un’esitazione finale, un po’ come il torero al centro dell’arena prima di matare il toro. A quel punto piazzava la palla in rete e correva verso le tribune colme di folla urlante per raccogliere l’applauso, un’autentica droga per lui, consapevole di quanto l’”indifferenza” e la “noia” siano l’essenza del gioco del calcio. Un talento purissimo, poi però in parte disperso a causa dell’eccesso di partite disputate e oscurato nel corso degli anni delle troppe chiacchiere a vanvera e di inutili tourneè in Africa.

Anche negli ultimi anni di carriera non rinunciava mai a indossare qualcosa di rosso quando scendeva in campo. Popolarissimo, amava andare al cinema nel primo pomeriggio accompagnato dalla sua “corte”, uno stuolo di tifosi personali pronti a fare sì con la testa a ogni sua banalità.

(2012)

Mangiare agnolotti stanca

di Francesco Savio

Probabilmente non erano trascorsi molti giorni da quando era andato per una stradicciuola di campagna, tutta deserta, col tumulto in cuore, portandosi dietro una rivoltella. Per questo, quando domenica mattina ho visto a Torino il soprabito che lo conteneva, magro e pallido, stazionare immobile eppure tremante sotto la pioggia battente appena fuori la Galleria Natta, ho chiesto a Marco di accostare.
"Ciao Cesare, per prima cosa dimmi cosa ci fai qui a prendere l’acqua come un albero, e perché non fai due passi più in là in modo da ripararti sotto la Galleria, dove non piove".
"Perché sono innamorato di Pucci, Francesco, e la sto aspettando, da sei ore".
"Ma Cesare, ti pare il caso di star qui a morire? Per una che si chiama Pucci, poi? E l’intensità del tuo amore, non sarà mica diversa se aspetti al coperto?"
Pavese non rispondeva e batteva i denti, mentre era quasi mezzogiorno.
"Sicuro che l’appuntamento non fosse per le sei di sera?"

In ogni caso, in due anche un grande poeta riesci a caricarlo sull’automobile, così l’abbiamo spinto dentro, abbiamo acceso il riscaldamento fino ad asciugarlo, muovendoci con decisione lungo le vie di una Torino fredda ma provvista di sole.
"Stavi lì ancora un po’ e ti beccavi una bella pleurite, Cesare. Per una che si chiama Pucci. Poi in primavera voglio vederti a stare a casa quando i tuoi amici vanno sul Po a farsi lunghe nuotate per scacciare il tedio e il dolore della anima".

Giunti all’Albergo Roma: un piatto di agnolotti del plin, un bicchiere di vino rosso delle Langhe. Cesare si pulisce gli occhiali, fuma e sfoglia affranto o felice Tuttosport.
"Ho diciotto anni. Sono incapace, pigro, malcerto, debole, mezzo matto. Mai, mai potrò farmi una posizione stabile in ciò che si chiama la riuscita della vita. Eppure, sapete che vi dico? Che sono piemontese e allora oggi vengo allo stadio con voi, perché giocano Juventus e Novara. Mi distende i nervi guardare le partite di pallone, e se Silvio Piola dovesse confermarsi sui livelli delle ultime giornate, per la Juventus saranno dolori!"


Dentro la nuova nave grigia con righe tricolori che brilla, proviamo ad attirare l’attenzione del presidente Andrea Agnelli fumante sigaretta in cappotto blu. In un momento di sorprendente entusiasmo, agito addirittura una mano e dichiaro al vuoto:
"Presidente, sono Savio, e volevo…"
Cesare mi tira giù per un braccio. 
"Guarda che non ti sente. Siamo dalla parte opposta, e poi queste cose noi timidi non le facciamo".
Ma poi è lui ad alzarsi e a declamare in direzione di Agnelli:
"Presidente, la poesia è dappertutto! Un qualunque sentimento è poesia! E questo dono divino è l’unica cosa veramente nostra, perché la scienza è, sotto un certo aspetto, una realtà di tutti e di nessuno!"

Al terzo minuto del primo tempo ci ritrovavamo tutti quarantamila in piedi, per applaudire una bella azione che terminava con la rete di Pepe su intelligente cross rasoterra del galoppante De Ceglie. Juventus 1, Novara 0. Seduti. Poi ci saremmo alzati in altre circostanze, per occasioni clamorose sfumate sul più bello: Marchisio, Giaccherini, Pepe, Quagliarella, Del Piero. Tutti bravi a fare goal, quasi. Il volenteroso Novara, seppur privo del capitano Piola, teneva botta il possibile, sovrastato dai propri limiti tecnici, e il risultato restava così in bilico fino settantacinquesimo quando Quagliarella ritornava centravanti 364 giorni dopo l’ultima volta, girando in rete di testa un calcio d’angolo di Andrea Pirlo.

Uscendo dallo stadio con la voglia di voltarsi indietro a guardarlo ancora, Cesare preferiva proseguire da solo, a piedi:
"Grazie ragazzi, mi sono divertito. E’ stato un buon pomeriggio. Ora ritorno fuori dal Caffè-Concerto La meridiana in Galleria Natta ad aspettare quella ballerina. Ma non lo farò in eterno, e non mi ammalerò. Invece studierò e lavorerò per fare della mia vita la cosa migliore e più bella di cui sarò capace".



[Pubblicato su Quasi Rete in data 20 dicembre 2011, e qui riproposto con il consenso dell'autore]

Sua maestà il calcio

Milton Fernández
Sua maestà il calcio

Visto dal Sud del mondo il calcio sembra avere un altro aspetto. In quelle latitudini sono nati i più grandi campioni e lì questo sport prende pieghe dalle tinte forti, definitive, che si confondono facilmente con quelle dell’esistenza stessa.
Questo libro, scritto da un autore di origini uruguaiane, racconta le storie di quei campioni e di altri, ma ci sono anche pagine in cui il calcio si mescola con partite diverse, quelle tra i sogni e la realtà, tra la gioia e la sofferenza, tra il coraggio e la paura, perfino tra la vita e la morte.
Questo è un libro per chi di calcio se ne intende, per chi lo ama da sempre ma anche per chi non l’ha finora considerato degno di nota e al calcio si avvicinerà, a piccoli passi, cominciando perfino ad amarlo un po’. Perché quella che si racconta qui è semplicemente la vita, solo con uno sguardo privilegiato, quello da un campo di 105 metri per 68, con una palla che rotola, due porte, e un numero imprecisato di cuori che battono all’unisono.


2013 | Rayeula Edizioni | L'autore

Meazza alla Dossenina

Calcio di oggi calcio di ieri
di Andrea Maietti

Negli anni Venti zio Carlo teneva una botteguccia di bagat a Milano, Porta Vittoria. La cosa di cui andò fiero per il resto della sua lunga vita fu di aver suolato qualche volta le scarpe a un ragazzino povero e vispo. Il ragazzino sarebbe diventato un campionissimo del pallone: si chiamava Giuseppe Meazza. Per veder giocare all'Arena il grande Pepin, mio padre, garzone di bottega, risparmiava il biglietto del tram, attaccandosi al trolley. Tanto bastava perché io diventassi interista nella gioiosa sorte e nella ria. E continui oggi ad avere qualche rimpianto per non averlo visto giocare di persona, il grande Pepin.

Felice Cerri
Il mio rimpianto è cresciuto, quando ho saputo che Meazza a Lodi era di casa, essendo anche buon amico del nostro Mao Capra. Si trovavano spesso al ristorante “Da Guido” in via Cavour. Qualche volta c’era pure Felice Cerri, detto ‘pajon’, terzino del Fanfulla negli anni Quaranta (successivamente al Milan) in coppia con Lovagnini. Felice, classe 1920, lo puoi trovare ancora ogni mattina in Piazza, a fare crepitante osteria di superstiti. Quando di anni ne aveva appena ottanta, una mattina d’estate si prese un coccolone alla Canottieri Adda. Lo ricoverarono d’urgenza: un colpo di sole, un collasso, chissà? In piazza lo diedero per spacciato. Il giorno stesso, al calar del sole, lui era già ritornato alla Canottieri per l’aperitivo. Gira ancora la voce che, prima di ogni partita, Cerri e Lovagnini studiavano la formazione avversaria, individuavano il pericolo numero uno e tiravano a sorte: «Quel lì, t’la massi tì o ‘l massi mì?».

Meazza giocò un paio di partite alla Dossenina, una volta marcato proprio da Pajon Cerri’. «Quella volta niente intimidazioni – dice ‘Pajon’-: Meazza era un grande e meritava rispetto. E poi noi gli eravamo grati per i consigli che dava a noi giovani di provincia. Siete bravi, ci diceva, fèves pagà
(2014)

La palla al balzo


Alfonso Gatto
La palla al balzo. Un poeta allo stadio

"La palla al balzo è il felice resoconto dagli stadi d'italia di uno dei maggiori poeti del Novecento. Il poeta di Il capo sulla neve e di Desinenze. Quel poeta che aveva recitato con Pier Paolo Pasolini stretto in una gualdrappa di lino a gelare al freddo materano nei panni dell'apostolo Andrea. Quello stesso poeta dagli "occhi aperti di sorriso, neri neri come le rondini sul mare" ora attento a riscrivere la cronaca sportiva, dopo il Giro e il Tour, cedendo al suo amore di sempre: il calcio. Il risultato è una prosa perfetta e leggera, una raccolta indimenticabile che traccia il contorno di una epoca e di un calcio in trasformazione. Che non ha ancora scritto le pagine delle imprese mondiali ma che vive nell'italia delle bombe. E più che un movimento di nostalgia porta al lettore una consapevolezza, di quanto preferivamo quel calcio che era sì preludio di quello moderno, ma che conservava ancora la freschezza di quei calciatori con gli occhi fissi sulla coppa. Quegli occhi aperti di sorriso." (Filippo Trotta).

2006 | Limina | L'autore

La partita di calcio

di Alfonso Gatto

Boccaccio era il portiere,
il gran portiere giallo
della squadra del quartiere.
Stava all’erta come un gallo

sulla porta del campetto
alla periferia.
Diceva: "Qua sul petto,
ed ogni palla è mia".

Ma quel giorno, chi lo sa,
sbuca di qua sbuca di là
- Boccaccio attento! - pa pa
la palla è in rete. "Ma va,
ma va, Boccaccio, è uno".

Attento, di qua di là,
passa non passa, tira.
Boccaccio si rigira;
si tuffa - passerà?-
"Qui non passa nessuno",
ma la palla è nel sacco.

E son due. Lo smacco,
i fischi, e poi sotto...
"Salta a pugno, Boccaccio,
ma non la vedi dov’è,
salta, salta"... E son tre.

E quattro e cinque e sei.
- Boccaccio dove sei?-
E sette e otto e nove
e piove e piove e piove
con grandine e con tuoni.
Quattordici palloni
nella rete di Boccaccio
poveretto poveraccio,
bianco come uno straccio
col berretto da fantino
ubriaco senza vino.


Quanti fischi! e poi "cretino",
"pastafrolla", "posapiano",
"tappabuchi", "moscardino!"
Oh, quel povero Boccaccio
nella furia del baccano
si strappava i suoi capelli
e la folla dai cancelli
gli gridava: "Ancora, ancora".

Tutti tutti, ad uno ad uno
si strappò capelli e baffi
e poi schiaffi sopra schiaffi
si ridette per lezione.
Restò lì con la sua testa
tonda, liscia come palla.
"Oh, son quindici con questa
- gli gridò dietro la folla -
tappabuchi, pastafrolla
vai a guardia d’un portone!"

E difatti il buon Boccaccio
col berretto e col gallone,
mani pronte e spazzolone,
oggi è a guardia d’un portone
dove passano persone
che fermare egli non può,
dieci venti cento e più.