L'Ajax non difende mai

di Jim Shepard

L’acustica degli stadi deserti era bellissima. Se anche un solo uccello cinguettava lo potevi sentire da qualsiasi punto del campo. La mattina presto, oppure dopo la partita, quando le luci erano spente e il cielo scuro, dalla panchina si sentiva il vento frusciare tra l’erba. Nel campionato olandese, all’epoca, le strutture degli stadi erano scheletriche e intime. I pannelli pubblicitari erano come dei vecchi amici e puzzavano di legno bagnato. Le balconate vuote sovrastavano la tribuna, e le cartacce soffiate dal vento rimanevano intrappolate tra gli schienali degli spalti più in basso.

Se prendevi un pallone e lo calciavi in mezzo al campo, il rumore del colpo riempiva tutto lo spazio. Era come se quel rumore ti afferrasse qualcosa dentro al petto.

Mi chiamo Velibor Vasović e ho giocato a calcio per undici anni, prima nel Partizan Belgrado e con la maglia della mia nazionale - e poi nell’Ajax. O forse dovrei dire che per undici anni ho giocato per soldi, perché a calcio ci ho giocato tutta la vita. Mio fratello giocava a pallone con i suoi amici e, appena sono diventato abbastanza grande da tenermi in piedi, ho cominciato a giocare con loro. All’inizio come portiere, ma non riuscivo a stare fermo un attimo, inseguivo il pallone facendo incavolare gli altri e rovinando tutte le partite, finché in porta ci hanno dovuto mettere qualcun altro. Giocavamo ogni giorno. La guerra era appena finita. Quando pioveva usavamo la stalla. La mucca stava sotto la pioggia e ci guardava. Sei o sette ragazzini in tre metri quadrati: così si imparava a controllare la palla.

Giocavamo con qualsiasi cosa avesse una forma rotonda. Di solito palle da tennis; la famiglia di uno dei ragazzi ne aveva una vecchia scatola. Sviluppavi una tecnica formidabile provando a dribblare con una palla da tennis.

Durante la Coppa del Mondo del 1954, in Svizzera, in una partita del girone mio fratello era sceso in campo contro le immortali maglie rosse dell’Ungheria - Puskás, Kocsis, Hidegkuti -, la squadra che aveva umiliato l’Inghilterra per 6-3 e 7-1 qualche mese prima.

“Come è stato?” gli avevamo chiesto al suo ritorno. Avevamo seguito la partita alla radio ma il cronista non era in grado di raccontare quello che accadeva in campo. Ammassati intorno al bancone del bar, tutto quello che eravamo riusciti a capire era che Kocsis era entrato in area di rigore, si era fermato e girato. Poi Dio era stato invocato ad alta voce. E un attimo dopo si era sentito un gracchiante boato metallico. Perciò quando era tornato mio fratello, uno degli undici eroi della nostra sconfitta per 28, era come se fossimo stati lì allo stadio e allo stesso tempo non ci fossimo stati; come se sapessimo e non sapessimo cosa significava davvero giocare contro il calcio più brillante del pianeta.

Dopo la partita mio fratello aveva fatto a cambio di maglia con Puskás. L’aveva portata al bar per farcela vedere. Passava di persona in persona come lo scudo di Achille. Un vecchio si era perfino lavato le mani prima di toccarla.

Dovevamo ripetere le domande a mio fratello più di una volta. Ognuno aveva la propria teoria su quale fosse il segreto degli ungheresi. Le loro doti tecniche? La tattica? La stazza fisica? La velocità? Com’erano le cose in Occidente?

Ripensai alle sue risposte la prima volta che andai a Amsterdam e vidi Johan Cruyff fare un cross di trenta metri in corsa: la morbida traiettoria scavalcò il portiere che aveva provato a intervenire, e il pallone andò a posarsi delicatamente sui piedi dell’ala destra, che l’appoggiò in rete quasi senza volerlo. Era il 1966. A maggio, l’allenatore e il presidente dell’Ajax mi avevano visto segnare il gol della bandiera nella finale di Coppa Campioni persa dal Partizan contro il Real Madrid. Volevano che diventassi il baluardo intorno al quale costruire la difesa dell’Ajax.

Vedete, nel 1966 passare da Žagubica a Amsterdam non era un cambiamento da poco. Cos’era la ribellione a Žagubica a quel tempo? I vecchi contadini che accarezzavano i propri asini in pubblico. Un atto di disobbedienza civile era rifiutarsi di togliersi dalla strada dopo essere caduto a terra ubriaco. Ero arrivato a Amsterdam il giorno della Festa della Liberazione olandese e mentre entravo in città dall’aeroporto pensai che ci fosse stato un colpo di Stato. Una rivoluzione. Un’invasione dallo spazio.

Migliaia di giovani giravano per il centro, a braccetto, cantando e urlando cose che non capivo. La mia interprete, la moglie jugoslava di un olandese, mi spiegò che stavano cantando “Vogliamo i nostri bolletje!”. Venne fuori che i Bolletje erano dei dolci per la colazione. Era uno slogan pubblicitario. Perché lo stavano cantando? Erano annoiati, mi disse lei. Migliaia di giovani che cantavano una cosa senza senso! A gruppi si urlavano addosso questo ritornello, avanti e indietro. La polizia era ferma di fronte a loro, composta, le mani strette davanti.

Rimanemmo bloccati dalla folla in una grande piazza chiamata Leidseplein. La mia interprete si scusò per non aver previsto l’inconveniente, ma sembrava tranquilla. Il tassista teneva le braccia sul volante e ogni tanto urlava qualcosa, in modo benevolo, a quelli che si sedevano sul cofano del taxi. Quando la macchina si fermava, giovani ragazze premevano le guance sul mio finestrino come se il taxi fosse stato la loro nipotina. Appollaiato sulla statua di qualche celebre personaggio, un uomo vestito da sciamano stava praticando una serie di rituali contro il fumo - rompeva dei pacchetti di sigarette, oppure si metteva le sigarette in bocca per poi masticarle e sputarle, o le buttava via con un gesto violento -mentre la folla cantava “Bram bram! Ugga ugga! Bram bram!”.

Volevo sapere che significava “Bram bram! Ugga ugga!”
La mia interprete scrollò le spalle. “Bram bram. Ugga ugga,” rispose.
Mi indicò un uomo arrampicato sull’asta di una bandiera, un tale conosciuto con il nome di “Johnny l’Autolesionista”, che andava in trance e si lanciava a terra da punti altissimi. Molte di quelle persone vestite di bianco, mi spiegò, erano i Provos, un gruppo di anarchici che guardavano al gioco e al divertimento come alla chiave per costruire un mondo migliore.
“Divertimento,” ripetei io, e lei mi rispose, come sulla difensiva, “Be', non c’è bisogno di dirlo in quel modo”.

Vedete, io non sono una persona politicamente schierata. E ovunque sia andato, le persone hanno sempre annuito quando ho pronunciato queste parole, come se le avessero capite davvero. Ma poi correvano tutti dietro a quel referendum lì o a quel movimento studentesco là. “A Vasović non importa un corno di niente,” diceva spesso Michels, l’allenatore dell’Ajax, ai giornalisti e ai miei compagni di squadra. Era il complimento più grande che mi potesse fare. Intendeva niente oltre al calcio.

Quel giorno la mia interprete sembrava fiera del suo paese d’adozione. La sua espressione sembrava suggerire che io fossi una specie di parente venuto in visita da un mondo arretrato. Mi chiese del mio paesino: Com’era la vita in mezzo a quelle colline? Sembrava tutto così selvaggio e remoto.
“Era un merdaio tranquillo,” le dissi. “Questo è un merdaio rumoroso.”
Il tassista le chiese qualcosa e lei rispose con la parola che significa “benvenuto” nella mia lingua.
“Benvenuto,” fece il tassista.
“Sta parlando con te,” disse la mia interprete. Io mi accesi una sigaretta. Non mi piace essere redarguito.
“Questo è un momento di grande cambiamento in Olanda,” continuò lei, come se la frase potesse avere un effetto sul fatto che fumassi.
“La moneta è stabile?” chiesi.
Dopo quella domanda mi lasciò in pace. Passato qualche minuto di silenzio, il tassista fece un’osservazione e lei rispose qualcosa che sembrò rattristarlo.

***

Johan Cruyff era politicamente schierato. Lo stesso giorno in cui venni introdotto alla politica olandese venni introdotto anche al calcio olandese. Mi fecero sedere tra la mia interprete e il presidente del club per vedere l’Ajax che giocava in casa con il PSV Eindhoven. Mi scolai parecchie birre. Notai subito il ragazzo che giostrava sulla fascia sinistra, uno spilungone dalla faccia inespressiva dotato di una resistenza infinita. Corse per novanta minuti di fila, e a fine partita sembrava che avrebbe potuto continuare a correre fino a Maastricht e ritorno. E correva con uno scopo: portava continuamente in avanti l’attacco dell’Ajax, spingendo sulla fascia, scatenando il panico nell’area del PSV e creando spazi per sé e i suoi compagni. Progettava intere geometrie mentre i suoi avversari correvano su e giù come talpe. Era un Pitagora in pantaloncini. Mi dissero che aveva diciannove anni. E mi dissero anche che non dovevo preoccuparmi di lui, dato che la sua posizione era occupata dal giocatore più forte della squadra, che al momento non stava giocando. Mi alzai e me ne andai. Mi rivolsi solo un attimo all’interprete: “Di’ al presidente che se hanno un giocatore più forte di quello, non hanno bisogno di me.” Mi ripresero a metà del corridoio e mi fecero sedere di nuovo. Incontrai Cruyff dopo la partita.

Aveva la stessa espressione vuota mentre si asciugava il sudore. I suoi compagni erano sotto la doccia. Il suo asciugamano era grande quanto un fazzoletto. All’epoca i giocatori dovevano lavarsi le proprie divise e portarsi da casa shampoo e asciugamani.

Sentii l’interprete menzionare il Partizan Belgrado. Cruyff annuì. Mi portò sul campo, fermò un raccattapalle che stava rientrando con una rete piena di palloni e ne allineò qualcuno al limite dell’area di rigore. Ce n’erano nove. L’interprete e il presidente della squadra si misero dietro di noi, facendo qualche osservazione a cui lui decise di non rispondere. Poi, mentre guardavo, si aggiustò i capelli dietro le orecchie e calciò i primi cinque palloni, mandandoli tutti a sbattere con precisione sulla traversa. Dopo si allontanò. Con le mie scarpe da passeggio, feci lo stesso con i quattro palloni rimasti. Cruyff sorrise con la sua espressione vuota mentre l’interprete e il presidente scoppiavano in un applauso.

Quando si fermarono Cruyff si diresse verso il presidente. Si misero a parlare e io cominciai a sentire il bisogno di un’altra birra. L’interprete mi spiegò che Johan era sempre in agitazione per qualcosa.
“Perché, cosa vuole?” le chiesi.
“Oh, niente di che,” rispose imbarazzata. “Ma c’è sempre qualcosa che non va.”
Poi Cruyff si rivolse a lei a bassa voce. Si guardarono per un momento.
“Vuole che ti traduca quello che dice,” ripeté sconfortata.

Venne fuori che stava chiedendo perché i membri dello staff erano assicurati per i viaggi all’estero e i giocatori no. Perché gli allenatori ricevevano i rimborsi per i pasti e i giocatori no. L’interprete sembrava cosciente che quella non era una buona strategia per convincermi a cambiare squadra. Mi confidò che Cruyff aveva quella che chiamava la sua “Lista di lamentele”.

Io, però, la sua smania di mettersi sempre e comunque di traverso la trovavo affascinante. Tra l’altro gli olandesi erano i soli che offrivano la possibilità di trasferimenti in quel periodo, e quindi quello era il mio unico biglietto per l’Occidente.

Anche il presidente ne era consapevole, e dopo aver passato tre giorni chiuso in una camera in affitto decisi di firmare il contratto per metà della cifra che avevo inizialmente richiesto.

Sembrava che gli olandesi seguissero alla lettera il Discorso della Montagna ma il loro cuore era come un libro contabile. I commercianti controllavano ogni singolo fiorino quando ti davano il resto. Che c’è, senti nostalgia di casa?, mi scrisse mio fratello. No, qui mi sento a casa, gli risposi.

Mio fratello era finito a lavorare dodici ore al giorno in una delle fattorie collettive che si erano recentemente consolidate nel sud del paese. La sua carriera era stata stroncata da un’entrata maldestra.

La prima mattina che scesi sul campo d’allenamento con il resto dell’Ajax, alcuni ragazzi dai capelli lunghi mi diedero il benvenuto con un cenno della testa e mi accolsero nel loro giro di riscaldamento. Il sole illuminava i piccoli canali e le mucche che si vedevano nelle vicinanze del campo. Quando l’allenatore arrivò e soffiò nel fischietto, i ragazzi dai capelli lunghi si disposero in due file e proclamarono i loro obiettivi con un piccolo poema:
Gioco aperto, gioco aperto.
Non puoi permetterti di trascurare le fasce.

E poi tornarono al loro riscaldamento. Mi diedero un foglio con una traduzione scritta a mano. Mi presentarono. E cominciò l’allenamento.

Pochi se lo ricordano, ma prima che l’Ajax diventasse l’Ajax, il calcio olandese aveva vinto un numero di trofei internazionali pari a quello del Lussemburgo. Ci vollero tutti i primi trenta minuti di quella mattinata perché ognuno di noi - l’allenatore, il comunista e i ragazzi dai capelli lunghi - capisse che faceva parte di un gruppo di persone che pensavano allo spazio. Il calcio ultra offensivo in cui i giocatori cambiavano di continuo posizione e costruivano azioni offensive da ogni angolo venne elaborato e collaudato su quel campo nel corso dei tre anni successivi. Eravamo un collettivo. Durante le pause discutevamo tra noi. E ascoltavamo tutti. Immaginate se proviamo a fare così? Che è successo quando abbiamo provato quello schema? Cominciammo a far salire centrocampisti e difensori nelle azioni d’attacco, e a vedere in che modo gli attaccanti dovessero adattarsi a questa flessibilità tornando a coprire quando era necessario. Lo scambio di posizioni avveniva in maniera fluida e naturale, e una volta cominciate le partite vere obbligava gli avversari ad affrontare un intreccio continuo di movimenti e improvvisi cambi di marcature. La prima parola olandese che ho imparato è stata “cambio”.

Costruivamo le azioni partendo da dietro; era raro che il portiere rinviasse a centrocampo, di base la passava a uno dei difensori, e da lì la squadra si muoveva insieme per tessere le sue trame: se qualcuno arretrava per un passaggio, qualcun altro si faceva avanti. Durante il possesso palla allargavamo il raggio dell’azione il più possibile, spingendo il gioco sulle fasce e cercando di vedere ogni giocata come un modo per ampliare e sfruttare lo spazio. Quando perdevamo palla, lo stesso ragionamento era applicato in difesa. Parlavamo dello spazio in modo molto pratico. Com’era possibile giocare per novanta minuti ed essere sempre attivi? Se tu eri il terzino sinistro e avevi fatto una volata di settanta metri sulla fascia, rientrare subito per recuperare la posizione non era una cosa tanto sensata. Se un centrocampista prendeva il tuo posto, invece, le distanze si accorciavano. Fu allora che mi accorsi di come gli olandesi cercassero sempre di individuare la soluzione più semplice. E quando la trovavano si entusiasmavano come matti.

Cruyff era il genio, da questo punto di vista. Tutti i bravi giocatori riuscivano a smarcarsi per ricevere palla, ma Cruyff, mentre giocava, riusciva anche a vedere dove era ogni altro giocatore in campo, o dove si sarebbe spostato. Era sempre tre mosse avanti agli altri e le sue azioni erano create per dare forma allo spazio. Dall’alto - dalla tribuna stampa - era come assistere a una lezione di architettura.

Quando coprivamo lo spazio nel modo giusto, tutto all’improvviso diventava tranquillo. Nessun rumore. Si sentiva solo il vento. E la palla: il suono che faceva a contatto con i piedi, il suono che indicava con chiarezza dove stava andando e con quanta forza, lenta o veloce.

All’improvviso il gioco non consisteva più nel prendere a calci le gambe dell’avversario. I tifosi, dopo le nostre partite, andavano via con la sensazione di aver assistito a qualcosa di unico, che non avrebbero potuto vedere in nessun altro luogo al mondo. State davvero creando qualcosa, mi scrisse mio fratello, rispondendo a una mia lettera in cui gli avevo raccontato quello che succedeva.

***

I miei genitori: erano politicamente schierati. Durante la guerra, la loro unità partigiana aveva sia dei fucili anticarro che un mimeografo, e mia madre aveva perso due dita per il gelo dopo aver trascinato l’attrezzatura tra i crinali di una montagna in mezzo alla neve profonda, per non farla cadere in mano ai tedeschi. Dio ce ne scampi. Si sarebbero rovesciate le sorti della guerra. Quella volta in cui, a diciassette anni, tornai a casa fuori di me dall’eccitazione per annunciargli che avrei giocato per il Partizan Belgrado, mi rivolsero entrambi un sorrisetto sarcastico. Non capii il perché fino a quando non mi accorsi che sorridevano per la scritta Partizan sulla mia maglia.

A dieci anni, chiesi di poter partecipare alle lezioni di catechismo che mio zio, un pastore, avrebbe tenuto per mio fratello e i miei due cugini. È probabile che all’epoca pensassi che, alla fine, la cosa mi avrebbe reso parte della famiglia, o almeno parte di una causa comune. Mio zio accettò di sottopormi a un colloquio per verificare la mia idoneità. Il colloquio si svolse in presenza di mia nonna. Non riuscii a rispondere neanche a una delle sue domande. Il mio totale fallimento fece ridere molto mio fratello e mio zio, al contrario di mia nonna che non si divertì per niente.

Quando arrivarono i tedeschi i miei genitori si arruolarono nella prima brigata slovena che prendeva il nome da un poeta-Cankar, nello specifico (”Il popolo scriverà il proprio destino da solo / Senza gli smoking, né i rosari dei preti”). Combattevano l’analfabetismo dando ai bambini poveri carta e matite, invece che soldi e caramelle. Distribuivano periodici come “Morte alla morte!” e “Donna oggi”. Tenevano lezioni sul rapporto tra ideologia e spontaneità. Usavano le porte di casa come lavagne. Dormivano al gelo e facevano la fame. Si fermavano davanti ai portoni dalla Stiria alla Carinzia e cantavano vecchie canzoni slovene per chiedere del pane alle fattorie, che di solito rimanevano sbarrate. A volte però gli permettevano di dormire nel fienile.

Mia nonna era la madre di mia madre. Suo padre era stato un impiegato delle ferrovie, morto di tifo. Sua madre era rimasta vedova con sei figli da accudire, e mia nonna era la più piccola. Mi ricordo che ogni mattina mangiava un po’ di marmellata con un cucchiaino che doveva essere pulito la notte prima.

Si riferiva a suo genero come a una persona di buona memoria, ma senza spessore. Mio padre sorrideva sempre quando lei lo diceva. Era difficile per noi immaginare che mio padre avesse sparato ai tedeschi. Era una persona piacevole e gentile, e quasi sempre diretta.

Prima della guerra lavorava fino a tardi, sotto la tenue luce di una piccola lampada, per permettere ai compagni imprigionati di meditare sulla più recente letteratura e prepararsi alla battaglia. Mia madre preparava le liste e il tè, e lo aiutava con il fraseggio. Si consideravano come dei cavalieri che combattevano una battaglia contro l’oscurantismo medievale e la furia che albergava nell’anima dei nostri contadini più arretrati. Credevano che il Partito e il movimento fossero molto speciali, e che la gente al loro interno fosse molto speciale. Erano convinti che ci fosse una specie di componente scientifica alla base della loro ideologia. Erano circondati da miseria e disperazione, ma più le loro condizioni di vita si facevano insostenibili, più il nuovo mondo gli sembrava vicino. Mettere in pratica le decisioni prese non era sufficiente. Chiunque poteva farlo. Dovevano arrivare al punto di trasformare loro stessi, in modo che ogni singola azione, in ogni circostanza, potesse essere valutata nei termini dei benefici apportati alla causa della rivoluzione. Il ruolo degli storici aveva perso ogni dignità ora che la Storia aveva indicato la via per la libertà finale e la fratellanza tra gli uomini.

***

Una persona che è sul punto di uscire di prigione diventa all’improvviso amata da tutti. E quella persona prova lo stesso per chi lascia dietro di sé. Litigi e rancori vengono dimenticati e perdonati, e lui saluta tutti con calore e schiettezza, come se niente fosse mai accaduto.

La notte prima della mia partenza per l’Occidente piansi e aspettai sveglio che arrivasse l’alba. Mentre mi facevo un tè e guardavo il sole che sorgeva, mia madre e mio padre portarono le mie cose - un completo e un altro paio di indumenti, impacchettati, sgualciti e pervasi da un forte odore di naftalina - accanto alla porta. Il mio avvocato arrivò per farmi firmare le ultime carte necessarie alla partenza. Nel corridoio dove eravamo attesi per prendere il treno c’erano diversi giovani piuttosto agitati. Ricordo poco o nulla del viaggio in treno fino all’aeroporto. Salici e ontani accanto a tranquilli ruscelli.

Quando scesi dall’aereo a Schiphol fui sopraffatto dagli odori e dai colori. Donne che indossavano giacchette primaverili e cappelli, strani vestiti. La mia interprete, una donna giovane e attraente, mi accolse con un abbraccio. Attraversai la città in un costante stato di stupore. Un ponte in lontananza, sospeso su un filo invisibile. Un’università. La piazza che le stava di fronte.

Mi lasciarono nel mio nuovo appartamento per farmi riposare dopo il viaggio. Feci un giro nel giardinetto sul retro. Un ramo ricoperto di fiori viola pendeva dal muro, mentre una ragazza stava sbattendo i tappeti dalla finestra della casa accanto. Le dissi, parlando nella mia lingua, che ero uno studente perseguitato. Le chiesi di prestarmi uno dei suoi tappeti per sdraiarmici sopra. Lei mi sorrise.

I miei occhi si riempirono di lacrime per mio padre. C’era qualcosa a cui non avesse rinunciato o che non avesse sacrificato? Per inseguire un ideale, si era costruito una vita che si era sepolta da sola. Una vita piena di rancore in un’impaurita cittadina dimenticata da Dio. Credevano di farlo per noi, e per i nostri bambini. Ma quello era il mondo della loro immaginazione, e ce lo avevano descritto in modo falso, e noi in un primo momento l’avevamo accettato come l’unica realtà possibile.

***

Michels era l’allenatore perfetto per me. Pretendeva una disciplina fantastica. Si comportava come un addestratore di animali, anche con i suoi assistenti. Diceva che ero il suo giocatore preferito perché non potevo fargli domande. Diceva a tutti che, una volta arrivati allo stadio, eravamo solo i numeri che portavamo sulla schiena. Fuori tornavamo a essere persone e potevamo di nuovo parlare tra noi.

Ogni notte rientravo soddisfatto nel mio appartamento con una sola sedia. Non ho mai capito perché uno dovrebbe giocare una partita, in cui perde quattro chili del suo peso corporeo, per niente. Quando indossi la maglia e ti allacci gli scarpini, l’obiettivo è vincere. Altrimenti puoi anche restare a casa e guardare la televisione.

Questa mia attitudine si rivelò preziosa per gli olandesi, che non erano feroci di natura. L’arte della difesa, se così si può definire, era un concetto totalmente estraneo ai miei compagni di squadra. Loro premiavano la Tecnica e la Tattica. Il coraggio, la voglia di vincere, la velocità, la cattiveria agonistica: nessuna di queste caratteristiche destava negli olandesi molto interesse.

Per questo Michels, durante gli allenamenti, cercava in ogni modo di sviluppare l’aggressività. In alcune partite si comportava come un arbitro diabolico, chiamando i falli con una tale parzialità che presero a soprannominarci “i Sanguinari”. Fece in modo che potessimo vivere di solo calcio: riuscì a far aumentare gli stipendi, così Cruyff poté smettere di lavorare in tipografia, Keizer dal tabaccaio e Swart in merceria.

Cercate di capirmi, però, non era lui che segnava i gol. Lui faceva la sua parte, noi la nostra.

Noi per primi, perfino noi, stentavamo a credere al potenziale che avevamo in mano. Nella prima partita contro il MVV Maastricht vincemmo 9-3 e io segnai cinque gol. Un difensore! In quella stagione realizzammo centoventidue reti.

Johan Cruyff, Piet Keizer, Barry Hulshoff, Ruud Krol, Gerrie Mühren: erano tutti scatenati in mezzo alla nebbia, insieme a me, contro il Liverpool, nel secondo turno di Coppa Campioni, il 7 dicembre del 1966. Insieme rimodellammo il pianeta del calcio. I giocatori del Liverpool non ci degnarono neanche di uno sguardo durante il riscaldamento; la loro metà campo era piena di semidei che l’estate precedente avevano vinto la Coppa del Mondo con la maglia della nazionale. Mentre facevamo stretching nello stadio calò la nebbia, e la partita si giocò in una tale oscurità che l’operatore del tabellone, seduto accanto alla nostra panchina, doveva mandare i raccattapalle a fondo campo per capire cosa stava succedendo laggiù. Chiese conferma una prima volta quando gli dissero che avevamo segnato un gol, e la chiese di nuovo quando gli dissero del secondo finché, al terzo in meno di dieci minuti, cominciò a sbraitare contro i raccattapalle: “Forza ragazzi, smettetela di inventarvi storie!” Le sue parole finirono su tutti i giornali olandesi del giorno dopo. Una delle prime pagine, in lettere così grosse da non lasciare spazio per nient’altro, proclamava: "AJAX 5-1!" Ovunque andassimo - negozi, cinema, scuole, ristoranti - quei due numeri continuavano ad apparirci davanti.

Quando andammo a Liverpool per la partita di ritorno, tutti dicevano che questa volta non ci avrebbero sottovalutato. Il loro allenatore predisse la vittoria del Liverpool per 7-0. Pareggiammo 2-2. Un quotidiano di Amsterdam titolò: "L’AJAX vince 2-2".

C’era una relazione tra la rivoluzione culturale e quella calcistica? I giornalisti volevano la nostra opinione a riguardo. Keizer disse di no. Hulshoff disse di no. Krol disse di no. Mühren disse di no. Io dissi di no. Michels si rifiutò di rispondere. Cruyff disse che era un’ipotesi intrigante. Durante le interviste del dopopartita si mise a parlare dei “Progetti bianchi” dei Provos. Cosa ne pensava del piano di Luud Schimmelpennink di fornire biciclette gratuite a tutta la città? Il povero Michels se ne stava nel suo ufficio, i gomiti sul tavolo e le mani nei capelli.

Usciva ogni tanto solo per cacciare qualche Provo dallo spogliatoio. Erano facili da riconoscere, tutti vestiti di bianco. E adoravano Cruyff, che attirava un mucchio di giornalisti.
“Di che sta parlando?” chiese Michels a un tizio che gli stava accanto, indicando uno dei Provos.
“Dice che in questa Nuova Babilonia la brama di aggredire sarà sublimata dal desiderio di divertimento,” spiegò Cruyff.
“Oh, per amor di Dio,” disse Michels.

Cruyff non si era mai fatto portavoce di questa roba, ma era chiaro che in parte ci credeva, che li teneva d’occhio. Ogni volta che entrava in campo, la sua intenzione era di rivoluzionare il gioco. Noi ci accontentavamo semplicemente di vincere.

E nonostante tutto, di notte, steso sul letto con la mia vicina ancora intenta a sbattere i tappeti, vedevo le facce dei miei genitori e mi chiedevo se questo fosse una sorta di strano regalo che mi avevano fatto: tattiche partigiane, strategie partigiane. Nella loro guerra non c’era né attacco né difesa, e gli accerchiamenti si creavano e si dissolvevano fluidamente da entrambe le parti; non si vinceva con la superiorità numerica ma grazie all’ingegnosità tattica. La sopravvivenza, per un partigiano, significava saper essere creativo con lo spazio.

“Affascinante,” disse Michels quando gli accennai questa teoria. Gliene parlai durante un trasferimento in pullman, mentre lui si lamentava di Cruyff. Il mio olandese a quel punto mi permetteva di intrattenere qualche conversazione al limite del comico.

Ma finché continuavamo a vincere andava tutto bene. Stavamo diventando qualcosa di maestoso e imbattibile. Eravamo marcati da due difensori e, l’istante dopo, completamente liberi. Il terreno intorno a noi sembrava stretto e affollato, l’istante dopo largo e spazioso. La brillantezza dei nostri passaggi era senza pretese: il bianco e nero del pallone che si stagliava contro il blu del cielo. Contro il verde. Belli nella loro precisione, semplici e modesti. Nessuno festeggiava o si toglieva la maglietta dopo quei passaggi.

Il cattivo tempo o un terreno disastrato potevano apportare diversi tipi di vantaggi. Una volta Keizer segnò in un campo ridotto a un pantano, facendo una palombella nel fango denso e ingannando i difensori turchi che si aspettavano un rimbalzo e si trovarono sbilanciati quando la palla rimase incollata al terreno. Un emiro del Kuwait, in tribuna, rimase così colpito che a fine partita si tolse dal polso l’orologio d’oro e lo regalò a Keizer. Contro il Panathinaikos, sotto un violento diluvio, giocammo l’intera partita effettuando i passaggi nelle zone con il drenaggio peggiore, intrise d’acqua, sapendo che la palla si sarebbe fermata prima, mentre i greci continuavano a correre oltre.

Sotto la guida di Cruyff, costruivamo castelli in aria, mentre lui appariva sempre nel punto esatto dove c’era più bisogno, ogni volta a indicare, indicare e indicare: tu vai là; tu rimani qui. Sarebbe stato felice di giocare in un campo lungo due chilometri, senza porte, nient’altro che stupende onde di movimenti che facevano avanti e indietro.

La nostra perfezione sembrava essere automatica. Il nostro istinto intimidatorio. Ci ponevamo di fronte ai nostri avversari con la mente calma, una tecnica immacolata e passaggi visionari. La bellezza dell’Ajax all’apice della sua forza era come la bellezza del pensiero.

Cruyff diventò l’idolo dei giovani di Amsterdam. “È il nostro John Lennon,” mi disse Keizer dopo una partita. “Chi è John Lennon?” risposi io.

Comprai mobili nuovi per il mio appartamento. Mandavo sol di a casa. A mio fratello fu negato due volte il permesso per venire a trovarmi.

La principessa d’Olanda annunciò che si sarebbe sposata con un tedesco che aveva prestato servizio nella Wehrmacht. L’intera città rimase sconvolta dalla notizia, come se fosse imminente la fine del mondo. Cruyff rilasciò diverse interviste a riguardo e partecipò a dimostrazioni di protesta. Qualcuno scioglierà Lsd nell’acquedotto?, gli chiesero i giornalisti dopo una partita contro il Feyenoord. Faranno uscire gas esilarante dall’organo della chiesa?
Lui si girò verso di me. “Tu che ne dici, Vasović?” mi chiese. Tutti i giornalisti si girarono con lui, le penne pronte a scrivere.
“No parlo,” risposi io, e mi abbassai i calzoncini per cambiarmi. Passai il giorno del matrimonio nel mio appartamento. In televisione, i Provos e gli studenti manifestavano tutti vestiti di bianco con i loro striscioni. La polizia, tutta in nero sullo sfondo, era lì che aspettava di caricarli.

Aiutami, mi scrisse mio fratello. Tuo fratello ha bisogno d’aiuto, mi scrisse mio padre. Mio fratello si era ficcato in una sorta di diatriba d’amore con un avvocato di nome Tasa, che si era poi rivelato un membro dell’Udba. Tuo fratello è fatto così, mi scrisse mio padre. Ha cornificato uno della Polizia segreta. In un bar, ubriaco, si era lasciato andare a un’invettiva contro la Jugoslavia e il suo silenzio durante l’invasione dell’Ungheria. È successo dieci anni fa, gli avevano detto i suoi amici. Non è il caso di parlarne ora. Ma mio fratello era salito su un tavolo e si era messo in piedi, nonostante il suo ginocchio. Gli immortali ungheresi! Puskás in prigione!

Riuscii a organizzare un viaggio a casa solo alla fine del campionato. Passai la notte a Belgrado e all’alba camminai fino alla stazione dei treni. La foschia galleggiava sopra i boschi e le cime dorate degli alberi. Avevo bisogno di aria pulita. Tirai su col naso come un cavallo e sentii la freschezza.

Trovai mio fratello nascosto in una cittadina non lontana dalla nostra. Alloggiava in una stanza con un fabbro bosniaco e un musulmano nullatenente che si era trasferito lì per riuscire a sopravvivere. La stanza era pulita, con due letti, una stufa a legna, un piccolo tavolo in abete e un lavandino. Un ontano ombreggiava la piccola finestra sul retro.

Il fabbro mise il tè sul fuoco per noi due e poi scomparve. Ci abbracciammo.

Tutti amavano mio fratello. Era un uomo aperto e sensibile, così bello che le donne si giravano quando passava per strada.

Mi disse di aver letto della partita contro il Liverpool. Sorridemmo e parlammo dei vecchi tempi e della stalla in cui giocavamo a pallone.
Mi chiese di aiutarlo a lasciare il Paese. Gli chiesi quale fosse la sua situazione finanziaria. Disse di non avere alcuna situazione finanziaria. I nostri genitori erano in condizioni pessime, mi confessò. Stava mettendo alla prova la loro fede nell’infallibilità del Partito. Farlo gli causava non poco dolore. Sarei riuscito a farlo uscire?
Gli dissi che ci avrei provato. Ovvio che ci avrei provato. Rimanemmo in silenzio, il tavolo in abete tra di noi. Lui scrutò la mia espressione. Era come se avessi detto: Cosa posso farci?
Avevo portato dei soldi, nascosti, insieme ad altri regali. Li accettò tutti con una sorta di apatia mista a benevola paura. Non rifiutava mai un aiuto finanziario.

Al check-in dell’aeroporto, un ufficiale mi chiese come mai non giocassi in patria. Gli risposi che stavo portando la gloria del calcio jugoslavo in Occidente. Mentre guardava le mie carte mi disse, “E tuo padre è un uomo onesto”.
“Cosa le fa pensare che io non lo sia?” gli chiesi. Si voltarono tutti verso di noi.
L’ufficiale non provò alcun imbarazzo. “Stavo parlando di tuo padre,” disse con calma, restituendomi il passaporto. “Io non so neanche chi sei, tu”.

Una volta tornato scrissi a mio fratello per raccontargli come procedevano i miei tentativi. Non ricevetti alcuna risposta. Mio padre mi scrisse circa una settimana dopo, senza menzionare la faccenda. Mi descrisse invece come si era sentito durante la Liberazione: il subbuglio dentro. L’enorme gioia che lo circondava ovunque - e lui che ci passava in mezzo, percependo solo una sorta di pesantezza.

Gli olandesi nel frattempo continuavano a tracciare linee rette nel futuro. Non gli bastava vincere; erano anche determinati a fare proseliti, a far conoscere la loro bellezza e la loro bravura a tutto il mondo. Il loro calcio era come la loro politica estera: una luce accesa su tutte le nazioni. I Provos fecero un poster con Cruyff al centro e lo slogan MEGLIO I CAPELLI LUNGHI CHE LA VISTA CORTA.

***

Mi sentivo offeso da quel poster. Lo evitavo. Evitavo Cruyff. Poi accadde che, prima di un’amichevole, il preparatore si accorse di aver finito il nastro adesivo, con noi due che eravamo ancora lì scalzi. Sparì nei meandri dello stadio per cercarne altro. Cruyff e io rimanemmo stesi su due tavoli, uno di fronte all’altro, i nostri piedi quasi a contatto.

I suoi capelli erano più lunghi che mai. Si grattò un orecchio. Sembrava che mi studiasse come se fossi un problema di scacchi di qualcun altro. Mi chiese, “Che sta succedendo nel tuo paese, Vasović?”
“Non lo so,” gli risposi alla fine, quando riuscii a parlare.
“Ci sei appena stato,” disse.
“Sì,” dissi io.
“A trovare tuo fratello,” aggiunse.
“Sì,” risposi.
“Ho sentito che aveva qualche problema,” disse.
“È stato Michels a dirtelo?” domandai.
“Non è venuto con te,” disse lui.
“È qui?” chiesi io. “Tu lo vedi?”
Si guardò intorno. Poi riprese a toccarsi l’orecchio.
“Era un grande giocatore,” commentò alla fine.
“Che c’è che non va?” mi chiese il preparatore, una volta tornato.
“È sempre così,” lo informò Cruyff.

Giocai la peggior partita della mia vita. A fine gara rimasi steso sul terreno di gioco. Qualcuno mi chiese la maglia.

Tutto diventò meno piacevole per me. Io avevo l’intelligenza calcistica, che non ha niente a che fare con l’intelligenza normale. Le cose più difficili nella vita sono le scelte, come diceva sempre il nostro allenatore. Mi ero strappato un muscolo della coscia che non voleva saperne di guarire. Correre era diventata una specie di prova del fuoco. Come diceva il Santo Patrono, il Dolore è un angelo che mostra agli uomini tesori che altrimenti sarebbero rimasti nascosti per sempre.

I miei genitori avevano smesso di scrivermi. Mio fratello aveva smesso di scrivermi. Il caso aveva voluto che alcune cose non fossero mai state dette nel loro Paese, mentre qui avevano trovato espressione. Non aveva senso stare a discutere su quale delle due strade fosse quella “giusta”. Ognuna coinvolgeva persone diverse che agivano come se fossero state internamente condizionate a farlo.

Una domenica assolata, poco dopo il Giorno della Regina, che era stato segnato da episodi di violenza e sfrenato consumo di alcol, stavo per effettuare una rimessa durante un’amichevole contro il Glasgow, quando colsi lo sguardo di una ragazza bionda con una retrusione mandibolare e le lacrime agli occhi; subito dopo mi allontanai dalla palla e non ne calciai mai più una.

Cosa aveva rievocato in me quella visione? La giovane donna con il tappeto alla finestra. Mio padre. Mio fratello. Il sovramorso di uno dei ragazzi che giocava con noi nella stalla. Chi può sentirsi libero quando i suoi cari non lo sono?

Michels provò a convincermi e a farmi ragionare per una settimana circa, poi rinunciò.
“Lascialo andare,” gli disse Cruyff, mentre assisteva al suo ultimo tentativo.

Mi trovai un lavoro nel reparto pulizie del nuovo Café Het Station, che mi sembrava fantastico e tranquillo. Gli immensi spazi desolati dell’adiacente stazione degli autobus emergevano dalla foschia ogni mattina, mentre passavo la scopa.

Una volta mi capitò perfino di scansarmi, quando una palla con cui giocavano alcuni ragazzi lì vicino rotolò nella mia direzione.

Non era forse vero che anche quando ridevamo eravamo tristi? Nell’ultima lettera che ricevetti da mio fratello, lui disse che mi stava scrivendo dalla più triste delle prigioni: il suo cuore.

Buoni pensieri, cattivi pensieri, colpi di testa perfetti, tiri al volo sbilenchi da angolature impossibili e geometrie immaginate. Vicini dall’espressione placida e birra: tutte queste cose diventano parte di una grande sfera invisibile in cui ognuno vive e sulla cui esistenza non c’è alcun dubbio. Queste sfere ci proteggono dal dolore. “Due per proteggermi, due per svegliarmi” recitava una di quelle canzoni sugli angeli che cantavamo da bambini, e la protezione da parte di queste entità invisibili era qualcosa di cui gli adulti avevano bisogno non meno dei bambini.

Quindi, scrissi ai miei genitori, un’ultima volta, non dovete pensare che io sia infelice. Cosa sono la felicità e l’infelicità? Dipende da cosa succede dentro. Io, ogni giorno, sono grato per queste sfere interiori - sono grato di averle -, grato di avere voi, e questo, tutto questo, mi rende felice.

(2012)

Il testo è liberamente disponibile in rete qui: "Vice" | Tratto da Jim Shepard, Non c'è ritorno, Roma, 66th and 2nd. 2012.

La poetica del catenaccio

di Massimo Raffaeli

Com’è che Brera è diventato Brera nel senso comune degli appassionati di calcio? Certamente per alcune sue punte polemiche che nei primi anni sessanta già tralignavano dalla carta stampata alla televisione con la comparsa di un epiteto, “abatino”, che egli aveva affibbiato, in un primo momento, e in accezione positiva, all’olimpionico duecentometrista Livio Berruti e ad Antonio Valentìn Angelillo, poi ad altri calciatori che vedeva con sgomento annaspare in ciò che pure definiva il “mare magno” del centrocampo (giocatori di nitido stile ma di scarso nerbo) quali Sandro Mazzola, Giacomo Bulgarelli e, ovviamente Gianni Rivera, nome proverbiale degli anni del boom, la cui eleganza corrispondeva per gli appassionati al segno di un paese redivivo, finalmente moderno, avvenente, e persino à la page: il suo, di Brera, era un empito di odio/amore che non sarebbe mai venuto meno anche se col tempo si sarebbe tramutato in una vera e propria parte in commedia e pertanto inderogabile.

Tuttavia, la polemica su Rivera e con Rivera stesso alla lunga si sarebbe rivelata la diversione necessariamente esagerata di un conflitto più antico e profondo, tale da mettere in questione l’analisi della partita di calcio e, a ben guardare, tanto il fondamento primordiale del gioco quanto lo sguardo portato su di esso. In effetti, chi leggeva Brera sulle colonne del “Giorno” o sul lenzuolo verde del “Guerin Sportivo”, fra gli anni sessanta e settanta, che consentisse o meno con l’oltranza sempre ribadita delle tesi, che fosse intrigato o respinto da una peculiarità linguistico-stilistica che non aveva eguali, comunque era costretto a convenire di trovarsi al cospetto di un critico nell’accezione letterale del termine. Se “critica” vuol dire, per etimologia, prima “distinguere” e poi “valutare” e “giudicare”, le sue pagine ne erano la più compiuta testimonianza: che poi presentassero una lingua e uno stile così riconoscibili (così originali da condannare al ridicolo di una involontaria parodia chiunque volesse imitarlo), questo lo smarcava dalla totalità dei colleghi e gli garantiva la fisionomia di un pioniere, l’unicità del fondatore di una disciplina. (Dunque la polemica con Rivera era nient’altro che il precipitato di una teoria o anche un’esca per moltiplicare la tiratura, era il momento ideologico e propagandistico di una posizione critica e teorica altrimenti fondata). Quando leggevamo Brera domandandoci invano il perché della sua unicità (intrigati o sviati dalla celebre massima di “Gadda spiegato al popolo” con cui volle liquidarlo un grande semiologo e massimo scrittore di intrattenimento, in Italia) non coglievamo il fatto che non esistevano ancora, da noi, dei critici di calcio che tali potessero chiamarsi. C’erano degli intenditori (per esempio Giglio Panza, Emilio Violanti, Renato Morino, Maurizio Barendson), degli ex sportivi riconvertiti al giornalismo (prima Vittorio Pozzo su “La Stampa”, poi Annibale Frossi sul “Corriere della Sera”), c’erano degli analisti in via di formazione (per esempio gli allora giovanissimi Gian Paolo Ormezzano, Giorgio Tosatti, Gianfranco Civolani), c’erano degli esteti come Carlo Bergoglio detto Carlin o degli ereditieri del dannunziano Bruno Roghi come Vladimiro Caminiti, c’erano addirittura degli storici (nientemeno Antonio Ghirelli, la cui prima edizione della Storia del calcio in Italia esce da Einaudi nel ’54) o degli scrittori chiamati a occuparsi di calcio a tempo pieno come Giovanni Arpino o, saltuariamente, come Mario Soldati, Luciano Bianciardi, Manlio Cancogni, Salvatore Bruno e Oreste del Buono. Ma qualcuno che sapesse recensire e valutare la partita di calcio come usavano, per altra via, i critici militanti della letteratura ancora in Italia non si era presentato. Nel senso comune, precisatosi soltanto nel lungo periodo, Brera è infine questo, un critico militante e insieme un teorico del gioco. Egli è il referente e complice ma anche il beneficiario della couche di critici sportivi che si vengono formando sulle pagine del “Giorno” allora dirette da Pilade del Buono: per stare ai fuoriclasse, Mario Fossati per il ciclismo, Gianni Clerici per il tennis, Giulio Signori per la boxe, senza ignorare le seconde linee calcistiche a nome Mino Mulinacci, Gian Maria Gazzaniga, Gian Mario Maletto, Beppe Maseri, Piero Dardanello e Mario Pennacchia che rimane, con la grande impresa di Il calcio in Italia (1999) forse il massimo cronografo-annalista di questo sport.

Su come lavorava Brera e su Brera allo stadio esiste una aneddotica ricchissima: primi rilievi stesi in tribuna stampa e prime “seriazioni statistiche”, come le chiamava, affidate al taccuino (uno per ogni gara, e pare ne siano residuati a centinaia), poi la corsa a casa o in albergo per la stesura dell’articolo con relative pagelle, di seguito la dettatura a ritmi implacabili ma godendo del privilegio (un privilegio forse unico nella storia del giornalismo italiano) di scegliere anche titolo, occhiello e sommario. (Per i libri teorici e divulgativi, o insomma per le pubblicazioni più impegnative, utilizzava i periodi di vacanza ma il ritmo produttivo rimaneva febbrile: del resto la sua intera produzione scritta assomiglia al cosmo copernicano, dove il centro è dappertutto e i confini da nessuna parte. Ciò complicherà il lavoro dei filologi a venire e però favorisce paradossalmente i prelievi più casuali, ad apertura di pagina, dalla sua sterminata produzione). Ma al di là della procedura, in che cosa consiste il suo metodo e quali ne sono i punti di riferimento? La partita, cioè il singolo incontro osservato e recensito, è il punctum cui si arriva per cerchi concentrici. Il cerchio esterno coincide con la storia patria e il nesso di storia-geografia che divide l’Italia con linea del Po. Nel cerchio ulteriore (che discrimina l’Italia del burro portato da Alboino dall’Italia dell’olio o anche l’Italia dei venti freddi e continentali dall’Italia dello scirocco e dei venti africani) sono già evidenti alcuni suoi stereotipi fondamentali: per ragioni di clima e di etnos il calcio è un fenomeno elettivamente cisalpino o padano e invece inadatto al clima mediterraneo; i grandi campioni (come testimoniano gli indici dell’atletica leggera, la disciplina di base da lui prediletta agli esordi) non possono che prosperare o latitare in relazione agli indici climatici ed etnico-storici. Da tali convinzioni (dove si mescolano tanto l’amore per la Lombardia che gli detta alcune tra le sue pagine più belle, specie di storia enogastronomica, quanto la apologia della cosiddetta Padania le cui venature xenofobe saranno purtroppo sfruttate da alcuni suoi postumi zelatori in camicia verde), egli viene deducendo una serie di antefatti decisivi: la natura tarda e composita della unificazione italiana; la concomitanza di zone climatiche diametrali; una pratica del gioco a lungo riservata alle fasce di media e piccola borghesia con l’esclusione del proletariato, specie meridionale; il persistere, nel movimento calcistico, dell’ipoteca coloniale (a partire dagli inglesi), l’assenza di una cultura specifica e la conseguente latitanza di una vera e propria scuola nazionale. Dalla progressiva consapevolezza di simili manques, dallo stato di miseria in cui nasce ed evolve in Italia il gioco del calcio, Brera deduce uno sguardo e mette a punto un metodo critico che, stante la natura composita e persino coacervica del fenomeno, non può che avvalersi di una scrittura sperimentale, mescidata e reinventata a oltranza.

Nel cerchio minore e oramai in prossimità del punctum, si delineano altre e allarmanti evidenze: in Italia, paese giovane e povero, poverissimo di atleti, fra quei pochi eccellono gli scattisti (nel calcio, attaccanti e difensori) mentre mancano i fondisti, vale a dire i centrocampisti che o sono rozzi e negati alla costruzione del gioco o sono splendidi stilisti e però renitenti alla corsa e ai recuperi, proprio come l’abatino Rivera. Brera non ha potuto assistervi ma l’albo d’oro gli dice che due Mondiali sono stati vinti dagli azzurri di Pozzo, nel ’34 e nel ’38, con la squadra disposta a W (o Metodo) e che viceversa, con la squadra disposta a WM (o Sistema, all’inglese) invalso nel secondo dopoguerra, il Grande Torino in maglia azzurra ha potuto essere umiliato dai britannici a casa sua e per 4 a O. Non è un caso che da giovane direttore della “Gazzetta”, pure sospettoso di qualunque nazionalismo, Brera metta a punto il suo metodo nel periodo di maggiore decadenza della nazionale, eliminata ai mondiali brasiliani del ’50 come a quelli svizzeri del ’54 e addirittura esclusa, per non essersi qualificata, da Stoccolma 1958. È qui, per usare il titolo di un grande storiografo, che Brera “inventa” la tradizione calcistica italiana senza la quale non sussisterebbe la sua stessa produzione di critico. È possibile darne il sommario ricorrendo al testo più compiuto della sua bibliografia tecnica, la Storia critica del calcio italiano (1975 e 1978), un’opera a tesi, dichiaratamente militante che, per testimonianza dell’autore, avrebbe dovuto brerianamente intitolarsi Storia critica della pedata italica. Lo sguardo non è equanime né potrebbe esserlo, visto che il decorso corrisponde a una trafila di momenti topici che tutti preludono o contrastano l’avvento del cosiddetto gioco all’italiana, il modulo sintetizzabile con la sua antonomasia di “catenaccio”. Qui, va subito aggiunto, il gesto critico descrittivo si traduce costantemente in rilievi chiaramente prescrittivi: ciò vuol dire che la critica, per Brera, non può mai prodursi senza l’avallo di una poetica.

Il calcio all’italiana per Brera, a partire dai primi anni cinquanta, si fonda su alcuni assiomi storicamente testati: a) la eversione del WM, troppo atleticamente dispendioso nonché tatticamente ingenuo, con il ritorno al Metodo degli anni trenta, cioè al doppio terzino d’area (uno stopper e un altro difensore “libero da impegni di marcatura” o più semplicemente “libero”, suo neologismo presto adottato a livello internazionale: costui è l’uomo che impedisce agli attaccanti avversari di andare immediatamente a rete una volta superato il rispettivo marcatore; b) il mantenimento della equidistanza fra i reparti della squadra, mai derogabile anche nelle situazioni di svantaggio (laddove Brera arriva a parlare di apparente “difesa della sconfitta”), che induce gli avversari a squilibrarsi e quindi a esporsi a letali rovesciamenti di fronte; c) il sillogismo deducibile da a) e b): difesa chiusa e contropiede, lo schema universale che se da un lato non va confuso con le barricate o le volgari ammucchiate dall’altro permette sia di saltare il centrocampo (specie alle squadre italiane, deficitarie in quella zona) sia di esaltare la agilità delle punte. Come dirà tante volte, questa è la risorsa di Davide contro Golia, la trovata di Bertoldo che non riesce a scegliere l’albero cui impiccarsi o, in una parola sola, questa è la metafisica dei poveri che sanno di esserlo. Neanche a dirlo, in tribuna stampa e fra il popolo grande dei lettori, molti nuovi ricchi se ne adontano inneggiando al “bel gioco” o comunque a un gioco alla pari con le scuole calcistiche più longeve e dal vivaio più ricco di atleti: Brera li iscrive tutti quanti d’ufficio alla scuola “napoletana” il cui esponente più pregiato è il suo antipode umano e professionale di sempre, Gino Palumbo, peraltro suo successore e ostinato eversore in “Gazzetta” (dove l’unico breriano resistente sarà per molto tempo Gualtiero Zanetti). Brera vagheggia un modulo che sappia contaminare, in Italia, il vigore troppo monotono degli anglosassoni e la squisitezza tecnica ciecamente prodigata dai latini sudamericani. Inventando la propria tradizione, sa che il catenaccio non è un’esclusiva italiana (perché già negli anni quaranta l’austriaco Rappan praticava il Verrou o Riegel al Grasshopper di Zurigo) ma che è tutta italiana l’attitudine a economizzare le energie (la caisse d’epargne di cui gli dirà, seccatissimo, un collega francese ai Mondiali di Messico ’70) nonché a disporsi in campo per attirare la squadra avversaria e colpirla di rimessa. Nella Storia critica la genealogia del contropiede è un fatto di lungo periodo e muove addirittura dalla Pro Vercelli anni dieci, passa per la nazionale di Pozzo (accusato comunque di praticismo e scarsa consapevolezza tattica, in pratica di razzolare bene ma, da succubo dei maestri inglesi, di predicare male), continua con il Bologna anni trenta di Arpad Weisz, vincitore sul Chelsea al Torneo dell’Esposizione di Parigi nel 1937 e arriva finalmente al 1960, annus mirabilis del catenaccio, quando la Figc affida a Gipo Viani e Nereo Rocco gli azzurri della nazionale Olimpica. Se Viani è un antesignano (“Vianema” si chiamava il criptocatenaccio da lui praticato in provincia), Nereo Rocco, tecnico della Triestina e poi del Padova anni cinquanta, è il suo primo eroe eponimo, sinonimo di saggezza, di umanità e di genio perfettamente dissimulato nella bonomia: Rocco è l’anti-italiano per eccellenza, un nemico giurato della verbosità e della megalomania. Nella buca di Prato della Valle, dove si battono e contrattaccano con vigore belluino i ragazzi che Rocco chiama i Manzi (difensori leggendari quali Blason, Azzini e Scagnellato, una mezzala come Humberto Rosa, punte del valore di Sergio Brighenti e Kurt Hamrin), Brera vede per la prima volta il corrispettivo si potrebbe dire dialettale di due grandi nazionali che intanto stanno praticando il catenaccio senza che il pubblico e la critica sappiano o vogliano avvedersene, l’Uruguay (che ha modo di ammirare contro gli ungheresi di Puskas ai Mondiali svizzeri del ’54) e il Brasile di Stoccolma ’58, la squadra di Didì-Vavà-Pelé convertita al doppio terzino d’area dopo storiche batoste e annose polemiche grazie alla saggezza di un tecnico di origine italiana, Vicente Feola, e su indiretto suggerimento di un ebreo ungherese, Béla Guttman, transfuga dal nostro campionato. 

Giusto in Italia la scuola “difensivista” risulta così minoritaria che la sua tarda affermazione, a cavallo degli anni sessanta, avviene ufficiosamente, quasi si trattasse di dover ammettere una pratica immonda: Brera giustifica la cautela remissiva del modulo citando una massima prudente e disarmante di Francesco Guicciardini (“che se tu nelli italiani riponi fidanza, sempre aurai delusione”) che oggi sappiamo essere invece solamente farina del suo sacco. Rocco, passato al Milan, è il braccio armato e vincente della critica breriana mentre non lo è affatto Helenio Herrera che Brera (suo ispirato biografo) valuta alla pari di un sublime cialtrone, di un abile preparatore e di un geniale opportunista, capace di passare in poco d’ora dal WM ultrapodistico dei suoi esordi al catenaccio ortodosso che munisce la difesa della Grande Inter anni sessanta. Sono gli anni in cui Brera moltiplica i lettori e però continua a dare l’impressione di parlare nel deserto: quando il pupillo di Rocco (l’abatino che ha accettato la parte in commedia) gli muove guerra sui giornali, per nero contrappasso l’Italia viene eliminata ai mondiali inglesi del ’66 dai quidam della Corea. Tale è lo scandalo e il suo personale sconforto che per un momento pensa di congedarsi dalla critica calcistica, convinto non ne valga più la pena. Non immagina che la immediata chiusura delle frontiere ai calciatori stranieri e la crescita corrispettiva del vivaio italiano produrranno un ciclo irripetibile e nel segno, se così si può dire, della più squisita breritudine: prima il Cagliari di Manlio Scopigno e di Luigi Riva (l’altro eroe eponimo, forse il solo eroe da lui celebrato fra i “pedatori”), poi la Juventus italianissima dell’allievo maggiore di Rocco, Giovanni Trapattoni (un tecnico cresciuto a una scuola oramai conclamata, la stessa di Osvaldo Bagnoli, Dino Zoff, Rino Marchesi, Ottavio Bianchi e, a ben vedere, di Marcello Lippi e di Fabio Capello). Quando la nazionale italiana vince a Madrid il Mondiale del 1982, Gianni Brera è di fatto ancora un critico militante ma da tempo viene percepito come il Maestro tout court, per giunta associato a “la Repubblica” che è l’organo ufficiale dell’intelligenza come dello snobismo all’italiana, una forgia implacabile del senso comune. Fatto sta che i lettori si moltiplicano e che cresce intorno a lui una nuova generazione di critici di calcio che tutti riconoscono, ed orgogliosamente, il proprio debito con lui (e qui bastino i nomi essenziali di Gianni Mura, di Mario Sconcerti e, già di una generazione ulteriore, di Matteo Marani, Massimiliano Castellani, Darwin Pastorin, quest’ultimo un breriano anti-breriano, per tacere del grande Beppe Viola, troppo presto perduto). A Madrid è come se Brera avesse vinto, e una volta per sempre. L’articolo che firma su “la Repubblica” all’indomani di quell’11 luglio ha la forma di un peana ma in realtà è un testamento e un virtuale passo d’addio. Egli non può che specchiarsi nella vittoria impensabile, non può che riconoscervi l’impronta del calcio all’italiana, l’epica del catenaccio o, come gli accade di chiamarlo in un momento d’enfasi, del “santo catenaccio” addirittura. Si concede persino una riserva sottile nei confronti del tecnico Enzo Bearzot quando scrive che, alla maniera di Vittorio Pozzo, costui ha predicato male e razzolato bene, attenendosi ufficiosamente al calcio all’italiana che a più riprese, ufficialmente, aveva invece condannato. Così scrive: 
"Io triumphe, avventurata Italia! Il terzo titolo di campione ti pone accanto al magno Brasile nella gerarchia del calcio mondiale. Hai strabiliato solo coloro che non te ne ritenevano degna, non certo coloro che sanno strologare a tempo e luogo sul mistero agonistico del calcio. La tua vittoria è limpida, pulita: non è neppure venuta dal caso, bensì da un’applicazione soltanto logica (a posteriori!) del modulo che ti è proprio, e in tutto il mondo viene chiamato all’italiana. […] Ora tu, cara vecchia smandrippata Italia, hai sfruttato appieno le virtù della tua indole, dunque della tua cultura specifica. Non si vince un mondiale senza storia: non si arriva senza nerbo né valore a una finale mondiale. […] Al diavolo i malevoli i cacaminuzzoli gli invidiosi gli incompetenti i pirla i fessi ai quali non è piaciuta la vittoria italiana. Io triumphe, avventurata Italia. Dovessi per un mese cantare le tue caste glorie, ebbene, lo farei con grato entusiasmo. E grazie a voi, beneamati brocchetti del mio tifo, beneamati fratelli miei in mutande."
Quel trionfo azzurro sembra davvero culminare, se non proprio concludere, la parabola di Gianni Brera critico del calcio. È vero che gli restano dieci anni da vivere e da scrivere ma è vera altrettanto, almeno per chi continua a leggerlo, la sensazione di una sua stanchezza, di una ripetitività accademica o forse, più probabilmente, di un suo progressivo disamore. Tutto nel frattempo sta cambiando vertiginosamente intorno a lui, non solo il calcio ma anche il calcio, un gioco che non è più un gioco e nemmeno uno sport, semmai uno spettacolo a esclusiva dominante mediatica. D’altronde non potranno mai andargli a genio (a lui geloso custode della italianità calcistica) il cosmopolitismo di squadre in cui gli stranieri di nuovo sovrabbondano, il disinteresse dei club e del pubblico per la nazionale (quando la vittoria di Berlino 2006, a lui postuma, sembra la classica eccezione che conferma la regola) così come non può non detestare la vigente riforma tecnico-tattica (ai suoi occhi certamente una controriforma) che si ispira al “calcio totale” degli olandesi anni settanta, un modulo che proprio lui ha bollato, se non irriso, chiamandolo “panturbiglione” (parodia del tourbillon), un combinato disposto di frenesia atletica e offensivismo tattico che prepara la deminutio capitis della sua stessa effigie di critico e di teorico del calcio.

All’eresia vincente di Rinus Michels e di Arrigo Sacchi continuerà a guardare con sospetto e ironia nella vana attesa di una resipiscenza: ma Brera resta un modernista radicale (si potrebbe dire un teorico del realismo critico) nel mondo che si avvia, anche nel calcio, alla postmodernità. In particolare a Sacchi non perdona di essere l’antipode di Nereo Rocco e infatti non sarà disposto a passargli né l’aura del “persuaso” (così un poeta-filosofo goriziano definiva un secolo fa i profeti che tali si autoproclamavano) né la parlantina irrefrenabile che lo associa parimenti ai conterranei Vincenzo Muccioli e Benito Mussolini. Il calcio terminale di Brera è in tutto e per tutto un calcio da nuovi ricchi e per nuovi ricchi, oggi così esoso, formattato, così ubiquitario, da non prevedere e anzi da abolire il concetto di “critica”, un calcio peraltro comunemente raccontato (escluse le ovvie e reverende eccezioni) in un gergo dogmatico e fondamentalista, in una Neo-lingua il cui lessico è davvero ripugnante: quando Gianni Mura afferma di dover sopravvivere fra i senzabrera è probabile si riferisca a tutto questo, pari al gruppo di fedelissimi (e fra gli altri il biografo breriano Andrea Maietti e il filologo Alberto Brambilla) che da anni redigono in suo onore i “Quaderni dell’Arcimatto”. Quanto infine a Gianni Brera e al vetusto contropiede, viene in mente un autore che lui amava ancora meno di Carlo Emilio Gadda, cioè Alessandro Manzoni, e in particolare un suo personaggio, l’ineffabile Don Ferrante, colui che cambiava le parole non sapendo o non volendo cambiare le cose: sono gli ignari discepoli di Don Ferrante che noi dobbiamo ringraziare se adesso, in Italia, il contropiede si chiama “ripartenza”.

"Lo Straniero", 2/2013

La “vera” morte di Gianni Brera

di Fernando Acitelli

Gianni Brera si congedò dalla vita in un modo assai distante dal tepore e dall’ortografia. In vero egli non avvertì da lontano l’ala dell’imbecillità di cui parlò Charles Baudelaire che sentì nella mente un vento strano, un’ostruzione cerebrale, ovvero l’annuncio del colpo apoplettico. E non si trattò neppure d’una morte alla Céline, improvvisa, o lenta, alla Papini, o diluita in un cronico riposo, alla Vincenzo Cardarelli per intenderci, incappottato anche d’estate e diviso tra il bar Aragno e il Doney di via Veneto. Nulla di tutto questo. Per Brera si trattò d’un incidente stradale nella notte del 19 dicembre del 1992. Era da poco entrato nella nuova stagione della vecchiaia, segmento di tempo in cui si prende residenza anche con piacere perché si sa come un simile scenario possa essere anche fruttuoso e ricco di intuizioni da allestire. Egli morì dunque fuori di casa, lontano dal tepore d’un perimetro sicuro e sacro. Certamente, l’essere di ritorno da una cena con amici promuove l’idea che un tepore da focolare doveva essere stato in lui. Dunque era stato sereno anche in quell’ultima serata in trattoria. Chissà su quale argomento stavano discutendo i tre amici sulla strada infida e nebbiosa… Sul Catenaccio, sul Sistema, sul Milan di Sacchi? Poi lo schianto. Secondo me, non si trattò di una morte “alla Gianni Brera”. Per lui, infatti, avevo sempre pensato ad un congedo magari anche improvviso, ma in un ambiente ricamato di tepore, tra i suoi libri, la sua quiete, le sue metafore con cui allestire giochi e giocate.

Ho sempre composto nella mente un’altra morte per Gianni Brera; non lo schianto, le lamiere, la polizia, le ambulanze, la pioggia, l’interruzione stradale, quanto un accadimento lieve, un transito neppure percettibile, addirittura un ritrovamento in terra visto che non s’era udito nulla di quel congedo. La morte, per me, non avrebbe potuto coglierlo fuori di casa, me la figuravo in tarda mattinata, nel mentre lui era intento a riordinare le carte, gli inediti, e a programmare quanto era da scrivere per quei giorni. Dunque, il suo lieto girovagare, anche spensierato, visto che quella mattina ha in mente qualcosa sull’avventura dell’Italia ai Mondiali negli Stati Uniti d’America nel 1994. Manca ancora un anno e mezzo a quella data, ma le intuizioni vengono all’improvviso e le si deve fermare subito sulla carta altrimenti, non disponendo più della giovinezza, si dissolvono subito. Dovrà egli partire da lontano per sentire come attenuato, assorbibile quell’evento… L’evento mondiale nel paese del soccer; nel paese delle grandi contraddizioni tra la sbandierata idea di democrazia e la quotidiana rappresentazione degli squilibri, delle ingiustizie, del male. Ecco, sarà bene, dunque, rinfrescare la mente sul concetto di democrazia ateniese, ad esempio, e poi sulla strategia dell’Impero romano da cui molto hanno preso i politici, gli storici e gli strateghi statunitensi. Un bel giro per casa a cercar libri… la democrazia in Grecia più che in America: Pericle, Platone, Aristotele più che Tocqueville. Eccolo dunque avanzare, superare ambienti fino ad arrivare nel suo studio dove le pareti sono tutte tappezzate di scaffali. Raggiunto il settore – tutta in sequenza la Storia e la Filosofia – ecco che estrae da quello scrigno sopraelevato alcuni libri e con essi s’avvia verso lo scrittoio. Il Natale è alle porte e si respira non soltanto in casa ma tutt’intorno una felicità con conseguenze emotive. Lui è in giacca da camera a somigliare un poco al Maigret-Cervi televisivo.  Incomincia così a distendersi placidamente su quei mondi dissolti che più non conta i suoi anni ma viene quasi aggredito da una strana gioia di vivere. Eccole, appunto, le conseguenze emotive della felicità natalizia. Ripete tra sé: “Nel 1994 avrò settantacinque anni ma quello negli Stati Uniti non sarà il mio ultimo mondiale… Voglio seguire quanto un giorno disse quella vecchia volpe di Liddas: ‘Morirò sui campi di calcio…’ Ecco, esattamente, quella sarà il mio giusto congedo…”. E’ felice per questa improvvisa illuminazione e la serenità dilaga ed egli s’avverte come un filosofo con ancora tante profondità da cogliere e comunicare. Non contento dei volumi presi, si alza e raggiunge di nuovo lo scaffale; adesso sono i volumi di Aristotele che avverte necessari, un vero sistema difensivo, un catenaccio autentico contro le aggressioni della vita. Trae dalla nicchia riservata alla Filosofia Antica l’opera omnia di Aristotele e con essa s’avvia di nuovo al tavolo di lavoro.

Adesso può iniziarla esemplarmente la ricognizione interiore sulla vita e così, a leggere Aristotele e a sfogliare Tucidide e ad immergersi in Senofonte e Teofrasto, ecco che il sereno e la felicità che sente sono talmente intensi che di nuovo coglie nella mente quanto avvertito poco prima, ovvero “una strana gioia di vivere”. Osserva la sua macchina da scrivere; sente l’urgenza, dopo poche righe lette, di passare immediatamente a quel ricamo interiore che lo sta felicemente braccando, ovvero un commento di dieci righe per ogni sfida memorabile del calcio mondiale. Non potrà uscire da quel box di dieci righe ed il bello sarà che su quella pagina traccerà anche il disegno tattico, ad esempio come si schierò l’Uruguay contro l’Argentina nel campionato del Mondo del 1930. Così dalle Elleniche di Senofonte, nel passo 13: “Frattanto Ciro mandò a chiamare Lisandro perchè era arrivato il messaggero inviatogli dal padre a riferire che il sovrano malato lo chiamava presso di sé, a Thamneria di Media, al confine con il territorio dei Cadusi, dove si trovava per una spedizione contro questa popolazione in rivolta”. Con uno scatto s’alza dalla sedia e arriva all’altro tavolo dove è sistemata l’Olivetti Lettera 32 e lì, inserito il foglio, subito compone a schema le due formazioni. Le ricorda a memoria e questo perché a Montevideo è stato proprio il suo Uruguay a trionfare.

Composte le formazioni sul foglio, inizia a sognare; in vero, vorrebbe essere lì, nello Stadio del Centenario, in campo e non sugli spalti e così porle un paio di domande ai vari Andrade, Mascheroni, Stabile, Monti. Quindi cerca di fare ordine tra le innumerevoli sensazioni che lo assediano: dovrà trattarsi di dieci righe nelle quali esalterà la vittoria dell’Uruguay. Sfoglia vecchi giornali, passa in rassegna i volti; diversi di quei calciatori delle due Nazionali hanno giocato anche in Italia e, tra questi, l’argentino Luisito Monti è stato anche campione del Mondo nel 1934 con la maglia dell’Italia. Osservando delle fotografie, inizia a immaginare Montevideo e vede uomini in strada, impeccabili, lustri e imbrillantinati; e un poco si rivede in quegli anni ’30 che laggiù sembrano un piccolo paradiso senza guerre. Quindi sente l’esigenza di tornare allo scrittoio. La lampada lì è accesa ed è un bene visto che fuori il tempo è piovoso ed egli sente che è un lusso starsene al riparo, nel tepore esteso del pensiero. Per un attimo s’avverte distante da tutti i mali del mondo. E’ felice  ma ha quasi paura a ripeterselo. Allo scrittoio il libro aperto di Aristotele è la Politica. Inizia a sfogliarlo; quelle pagine di mondi lontani lo proteggono, gli permettono di scansare tutti quei filmati sul cosmo in cui si parla di modernità, di tempeste solari, buchi neri e universo in espansione. Che angoscia a sentire tutte quelle spiegazioni! Sembra che anche ogni metafisica in quegli scenari si frantumi. Tutte queste parole gli fanno avvertire più esile la vita e chi è giunto a settantatrè anni dovrebbe evitare simili documentari scientifici perché sembrano dissolvere in un attimo tutto il sapere che l’uomo ha scritto e custodito sulla Terra. Dunque Aristotele e poi, se sarà necessario, tutti gli altri, Platone, Socrate, i presocratici e tutti coloro che, pur temendo il divenire, lo attraversavano non sapendo nulla delle teorie quantistiche e della Tecnica che sa distruggere anche il sogno di Dio.

Riprenderà a breve le dieci righe sulla vittoria dell’Uruguay, adesso è necessario cercare qualche parola esatta in Aristotele; successivamente, per eventuali esigenze metafisiche e sulla nascita del mondo, prenderà in mano il Timeo di Platone. Adesso la Politica di Aristotele gli è necessaria per quel discorso sulla democrazia cui tanto tiene: i mondiali negli Stati Uniti nel 1994, ricordiamolo. Così inizia a leggere: parte bene, l’occhio è svelto, lucida la mente; è calmo, è sereno; diffusa nello sguardo si mostra la tranquillità per ore e giorni custoditi. Sfila il tempo e ad un certo punto egli giunge al passo: “9. Ora bisogna determinare quali caratteristiche sono attribuite all’oligarchia e quali alla democrazia e che cosa sia la giustizia per l’oligarchia, che cosa per la democrazia. Tutte e due arrivano a una qualche giustizia, ma a una giustizia parziale, essendo entrambe incapaci di determinare che cosa sia giusto in ogni caso e in senso pieno. Per esempio si direbbe che la giustizia è costituita dall’uguaglianza; il che è vero, però non sempre, solo quando si tratti di rapporti tra uguali. Pare che la giustizia consista anche nell’ineguaglianza; e anche questo è vero, ma non per tutti, bensì solo per quei casi in cui si abbiano dei rapporti tra ineguali. Alcuni prescindono dalle persone che entrano in rapporto e perciò giudicano male. Gli è che il giudizio verte su loro stessi e in genere si è cattivi giudici quando si è parte in causa”.

Bene, s’arresta, bellissimo quell’ultimo passo. Solleva lo sguardo, guarda fuori: è iniziato a nevicare e la gente sarà felice. Poi si sposta con gli occhi sul piccolo albero di Natale che affresca un angolo di quel suo studio. Ne ammira le intermittenze colorate: rosse, blu, verdi. Le intermittenze, un miracolo. Così pensa alle pulsazioni cardiache, bel paragone, non c’è che dire. È un attimo: sorride, guarda la neve fuori, mancano sei giorni al Natale. Un lungo sospiro e la fronte plana sul libro aperto di Aristotele. Tutto è calmo, tutto è lieve. Di là, nessuno s’è accorto di nulla. Gianni Brera s’è congedato dalla vita lievemente. Senza dirlo, ha pronunciato dei versi di Giorgio Caproni: “Scendo. Buon proseguimento”.

"Il Reportage", 01/2013

Zoltán Czibor

Ritratti


Tuttavia bisogna fare i conti con Czibor. Ha davvero un volto meraviglioso, il piccolo Czibor, il volto dello scrittore che avrebbe potuto lasciare un'opera importante, ma preferisce tirar tardi nei caffè, perché lì fa più caldo, gli piace stare appoggiato al bancone a chiacchierare, per poi magari, all'improvviso, lasciarsi sfuggire un'enormità che gli costerà il carcere. Ma nonostante ciò, quando leggiamo i pochi libri che quest'uomo ha lasciato, lo ritroviamo tutto. E allora viene da dirsi: è questo lo scrittore, è questo l'uomo che mi può consolare quando sono triste e ho dei dubbi sulla natura umana.

Avrò sempre davanti agli occhi Czibor che, verso la fine della partita, attraversa tutto quell'immenso stadio che viene inaugurato alla presenza di Stalin e di tutti i dignitari, riceve un passaggio da un centrocampista, e corre, corre, corre e sicuramente dice fra sé: "A forza di correre, bisognerà pure che tiri!". Avrà senz'altro esitato, ma l'ha fatto pensando: "Non posso deludere papà e mamma, e gli zii, e i vicini che stanno ascoltando la radio. Mi hanno avvertito: si rischia grosso. Ma si rischia cosa, in realtà?". E, fra lo stupore generale, questo nanerottolo - che di piede aveva il 36 - tira e segna!

A quei tempi era la radio a farci trepidare, ma le immagini di quella partita, che in seguito ho avuto modo di vedere, sono piene di emozione e di insegnamenti: una vera lezione di comportamento. 

Czibor gioisce, lascia esplodere la sua esultanza e si volta verso i compagni. I quali, allora, hanno un istante di esitazione. Di stupore. Umano, troppo umano. "Senti, Zoltan, noi ti vogliamo un gran bene, ma certe cose non si fanno". Ancora un momento: lo stadio è muto. Un momento ancora, e i compagni di squadra si precipitano a congratularsi con colui che ha rovesciato il bicchiere di palinka e sporcato di gulasch la tovaglia candida.

Vladimir Dimitrijević, La vita è un pallone rotondo

N.B.: la partita cui l'autore si riferisce fu disputata il 23 settembre 1956 al Lenin Central Stadium di Mosca [Cineteca]

La partita soda dell’attaccante Bianciardi

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Cresciuto nella Grossetana, è poi approdato a Milano, soffrendo però il salto dalla provincia alla grande ribalta calcistica. Non sapeva “fare gruppo”, era anarchico-insofferente fino alla testardaggine, sempre fuori tempo, nessuno è mai riuscito ad accettarlo a lungo. E poi non sopportava troppe cose: i ritiri, il presidente miliardario radical-chic della squadra, il fuorigioco, le segretarie secche, i grattacieli e i supermercati. Era malvisto dai compagni perché arrivava tardi agli allenamenti e dalla dirigenza perché quando andava nella lussuosa sede della società trascinava i piedi nei corridoi, per cui finì per essere messo fuori rosa. Poi nella stagione 1962-63 l’esplosione improvvisa e la definitiva affermazione a livello nazionale, ma il successo e la popolarità non facevano per lui: “Ormai mi chiamano ovunque, posso sparare qualsiasi cavolata”.

In campo era un solista, poco portato al gioco di squadra. Un attaccante dal fisico compatto, ficcante e veloce. Palla attaccata al piede, dribblava i difensori avversari come birilli e poi faceva secco il portiere con tiri al fulmicotone. Nelle giornate di grazia era incontenibile. Allergico alla Scala del calcio, il suo vero sogno era diventare un campione della pelota basca, sport che seguiva con passione dalle tribune dello sferisterio di via Palermo.

Poi un bel giorno decise che ne aveva pieni i corbelli della vita agra del calciatore e durante il primo tempo di una partita mandò affanculo l’arbitro, i segnalinee, l’allenatore, i compagni di squadra, gli avversari, i giornalisti e i tifosi. Uscì dallo stadio e continuando a mandare affanculo tutti quelli che incontrava per la strada se ne andò a casa per uscirne solo dopo una settimana in coma etilico. Al suo funerale erano presenti solo quattro persone.
(2012)