Io del Real, lui del Barça


di Javier Marías (in morte di Manuel Vázquez Montalbán)

Di persona ci siamo incontrati soltanto una volta, ormai molti anni fa. Lo stesso autista ci aveva presi all'aeroporto di Asturias, (lui arrivava da Barcellona, io da Madrid) per portarci a Vérines, per un incontro di scrittori. Appena salito in macchina, tirò fuori un auricolare e se lo collocò in un orecchio; «è per seguire il calcio», fu tutta la spiegazione. 

Doveva essere un mercoledì e si disputavano delle partite di Coppa, ancora poco importanti. «Ah, e come va il Madrid?», approfittai per indagare. «Perde 1-0 con lo Sporting». Mi fu impossibile non chiedermi se la cosa gli dispiacesse. Non avevo motivi per crederlo, anche se - ovviamente - non ne avevo nemmeno per credere che fosse contento, e, difatti, non riesco a evitare di pensare che non gli avrebbe fatto piacere che io in un giorno come questo scrivessi qualcosa su di lui. Appassionato di calcio come sono, rispettai, tuttavia, il suo silenzio per l'ora e passa del viaggio e non cercai di impegnarlo in una conversazione. In fondo, pensai, io farei lo stesso, seguirei le partite, se si trattasse di quelle importanti. Cosicché, quel tragitto lo percorremmo in silenzio, non imbarazzante però. E volli credere che forse non gli era dispiaciuto - alla fine, quando dopo un bel po' di tempo mi rivolse nuovamente la parola - comunicarmi qualcosa che a lui non avrebbe dovuto far piacere, ma a me sì. 
«Il Madrid ha pareggiato», mi disse. 

Molte volte, invece, abbiamo avuto le stesse opinioni sulle pagine sportive di El País, anche se eravamo una coppia di opposti. Lui come rappresentante letterario e persino "ideologico" del Barca, io del Madrid, ogni volta che le nostre rispettive squadre si scontravano all'ultimo sangue. Credo che nell'ultima occasione sia stato io a mancare all'appuntamento, e ora so che nelle prossime chi mancherà sarà certamente lui. 

Oggi siamo molti gli scrittori che osiamo parlare di calcio senza temere di perdere il nostro prestigio, ma è indubbio che Vázquez Montalbán è stato il grande pioniere e il più audace, così come il primo a segnalare ciò che poi tanti abbiamo ribadito: è vero che si cambiano i gusti, le coppie, le convinzioni, le idee e anche le ideologie, ma non si cambierà mai la squadra di calcio preferita. 

Curioso che le fedeltà maggiori siano quelle che appaiono minori. O non tanto: immagino che lui sapesse, con la sua forte coscienza politica, l'importanza che qualcosa di tanto disprezzato come il calcio può avere nella quotidianità delle persone che hanno poco. Sapeva che se la tua squadra vince, i problemi reali non scompaiono né si patiscono meno le ingiustizie. Ma anche che, se la tua squadra perde, i problemi appaiono più gravi e irrisolvibili il giorno dopo e che pesano di più le ingiustizie. 

Conosceva e accettava la dimensione simbolica, e anche superstiziosa, perché aiuta a tirare avanti di giorno in giorno. è stato spesso un culé disperato di fronte all'inettitudine dei dirigenti o alle brutte partite del Barça. Ma, nonostante le sue occasionali minacce di smettere di seguire la squadra, o di farlo solo da lontano, immagino che questo non sarebbe mai stato del tutto possibile. Così come sapeva che il rivale più acerrimo, nel suo caso il Real Madrid, è necessario quanto l'aria, nel gioco come nella vita, per temerlo, invidiarlo, odiarlo, ammirarlo e sconfiggerlo. Oggi io so che perdere un antagonista rattrista tanto quanto perdere un alleato. Forse di più. Sono contento che Vázquez Montalbán abbia visto almeno una volta la sua squadra Campione d' Europa. E la prossima volta che ciò accadrà, sono sicuro che mi ricorderò di lui e penserò quello che anche ora penso e dico in suo onore: Visca el Barça.


"El País", 19 ottobre 2003 (En la lealtad mayor)
Trad. it. (di Guiomar Parada), "La Repubblica", 19 ottobre 2003

L’inesauribile Scerbanenco

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Di padre russo e madre italiana, nato a Kiev, ma arrivato in Italia da bambino, Giorgio Scerbanenco, grande lavoratore del centrocampo, venne ribattezzato “lo Stachanov del calcio”, un po’ per le sue origini, ma soprattutto per le centinaia e centinaia di partite disputate sempre senza risparmiarsi.

Scerbanenco abbandonò prestissimo la scuola e trasferitosi da Roma a Milano, prima di diventare calciatore professionista, ha passato anni di vera miseria facendo i lavori più disparati: operaio alla Borletti, addetto al pronto soccorso della Croce Rossa, contabile in una ditta. Ogni tanto qualche intermezzo in sanatorio, ricoverato più per denutrizione che per malattia, e dove veniva curato a suon di zabaioni.

Poi finalmente l’esordio in serie A e da allora una serie infinita di partite. Giocava sempre, comunque, dovunque. Anche quando arrivò il successo e il benessere economico, Scerbanenco gli anni duri della miseria se li portava sempre addosso. Anche nel fisico. Magrissimo, allampanato, con una faccia un po’ così, a metà strada tra Totò e Marty Feldman, il comico inglese con gli occhi a palla, lui era sempre lì a correre a perdifiato su e giù per il campo con la sua figura un po’ sgraziata, la maglia perennemente fuori dai pantaloncini e i calzettoni spesso arrotolati alle caviglie.

Gli esteti del calcio hanno a lungo storto il naso di fronte al suo modo di giocare, ma i tifosi lo hanno sempre amato perché non si dava arie da artista del pallone e si considerava solo un travet del calcio. Poi, all’inizio della stagione 1968-69, quando finalmente il suo talento era stato riconosciuto da tutti, durante una partita è stramazzato al suolo fulminato da un infarto.
(2013)