Capriccio rosanero: Tomasi di Lampedusa

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Una pietra miliare nella storia del calcio italiano, pur essendo una figura anomala e del tutto particolare. Intanto per le sue origini aristocratiche, inusuali in un mondo plebeo come quello del calcio, poi per la sua personalità schiva e riservata, ma soprattutto per la singolarità della sua carriera. Nato a Palermo, fece la sua comparsa sui campi di gioco solo in età molto avanzata, quando la maggior parte dei calciatori ha già appeso le scarpette al fatidico chiodo, e vestì la gloriosa casacca rosanero per un’unica leggendaria stagione.

La fine degli anni Cinquanta era un’epoca di oriundi per il calcio italiano e all’improvviso apparve questo stagionato fuoriclasse, una mezzala dall’incedere un po’ lento e classicheggiante, ma dalla tecnica sopraffina. Di lui si sapeva poco, per non dire niente. Aveva cominciato a tirare i primi calci al pallone negli infiniti corridoi del palazzo paterno di Palermo e nella grande casa di campagna di Santa Margherita Belice, dove si favoleggiava esistesse addirittura un vero campo regolamentare. In seguito, sempre per suo conto, il giovane Tomasi di Lampedusa, aveva fatto numerosi viaggi all’estero frequentando i maggiori tecnici europei dell’epoca. Poi, più che altro per un capriccio, il suo esordio allo stadio palermitano della Favorita e l’improvvisa fama.

Così come nella vita, anche in campo era taciturno, corrucciato e tendeva a isolarsi dai compagni. Scettico verso le tattiche degli allenatori, soprattutto quelle più innovative, quando giocava dava quasi l’idea di essere un osservatore più che un protagonista della partita. Ancora oggi, in un mondo conformista come quello del calcio, Tomasi di Lampedusa resta una splendida bizzarria in gran parte misteriosa perché, come ha detto suo figlio, “era certamente un uomo di segreti”.
(2013)

George Best


George Best

Basetta sassone,
palleggio virile,
pirata numero undici
al pari del tuo compagno Morgan.

"Se Liverpool ha Paul McCartney
noi abbiamo George Best!" urlavano
le teen-agers sognanti un tuo bacio.

Col tuo cognome, il migliore,
chiudevi il tridente dei rossi
di Manchester.

Il canzoniere del Novecento di Fernando Acitelli

Klaus Augenthaler


Klaus Augenthaler

Fuoruscito dalla Guerra dei Trent'anni,
t'allineasti su sentieri di sbronza
a fronteggiar agguati palatini,
brandemburghesi, protestanti, cattolici
e della marca luterana.

Nei tornei d'Europa
il tuo volto
fu l'effigie del saccheggio,
l'alito dello stupro.

Era sui cross dal fondo
che rammentandoti dei lanzichenecchi
ponevi a ferro e fuoco l'inoffensivo
bargello.

Me Grand Turin

La Juventus è universale, il Torino è un dialetto. 
La Madama è un “esperanto” anche calcistico, il Toro è gergo



Giovanni Arpino

Me Grand Turin 
(1974)

Russ cume ‘l sang
fort cume ‘l Barbera
veuj ricurdete adess, me grand Turin.
En cui ani ‘d sagrin
unica e sula la tua blessa jera.

Vnisìu dal gnente, da guera e da fam,
carri bestiame, tessere, galera,
fratej mort en Russia e partigian,
famìe spiantià, sperduva ogni bandiera.

A jeru pover, livid, sbaruvà,
gnanca ‘n sold ‘n sla pel e per ruschè
at duvavi suriè, brighè, preghè,
fina a l’ultima gusa del to fià.

Fumè a vurià dì na cica ‘n quat,
per divertise a duvìu rii ‘d poc,
per mangè a mangiavu fina i gat,
geru gnun: i furb cume i fabioc.

Ma ‘n fiur l’aviu e t’jeri ti, Turin,
taja ‘n tl’asel jera la tua bravura,
giuventù nosta, che tuti i sagrin
purtavi via cunt tua facia dura.

Tua facia d’uveriè, me Valentin!,
me Castian, Riga, Loik e cul pistin
‘d Gabett, ca fasia vni tuti fol
cunt vint dribbling e poi jera già gol.

Filadelfia! Ma chi sarà ‘l vilan
a ciamelu ‘n camp? Jera ne cuna
‘d speranse, ‘d vita, ‘d rinasensa,
jera sugnè, criè, jera la luna,
jera la strà dla nostra chersensa.

T’las vinciù ‘l Mund.
a vintani t’ses mort.
Me Turin grand
me Turin fort




Traduzione

Mio Grande Torino

Rosso come il sangue
forte come il Barbera
voglio ricordarti adesso, mio grande Torino.
In quegli anni di affanni
unica e sola la tua bellezza era.

Venivamo dal niente, da guerra e da fame
Carri bestiame, tessere, galera,
fratelli morti in Russia e partigiani,
famiglie separate, perduta ogni bandiera.

Eravamo poveri, lividi, spaventati,
neanche un soldo sulla pelle e per lavorare
e dovevi sorridere, brigare, pregare
fino all’ultima goccia del tuo fiato.

Fumare voleva dire una cicca in quattro,
per divertirsi dovevamo ridere di poco,
per mangiare mangiavamo perfino i gatti,
non eravamo nessuno: i furbi come gli sciocchi.

Ma avevamo un fiore ed eri tu, Torino,
tagliata nell’acciaio era la tua bravura,
gioventù nostra che tutti i dispiaceri
portavi via con la tua faccia dura.

La tua faccia d’operaio, mio Valentino!
mio Castigliano, Riga, Loik, e quella peste
di Gabetto, che faceva venire tutti matti
con venti dribbling ed era già gol.

Filadelfia! Ma chi sarà il villano
a chiamarla un campo? Era una culla
di speranze, di vita, di rinascita,
era sognare, gridare, era la luna,
era la strada della nostra crescita.

Hai vinto il Mondo,
a vent’anni sei morto.
Mio Torino grande
Mio Torino forte.