Quel talento di Mister Bagnoli

di Massimo Raffaeli

Troppo facile dire che nel calcio di oggi uno come Osvaldo Bagnoli sembrerebbe un extraterrestre, troppo facile spendere tutti gli aggettivi dell’etica a proposito di uno come lui. Tuttavia è così, nell’odierno football professionistico uno come Osvaldo Bagnoli rimane l’eccezione che conferma la regola, tuttora vigente e anzi dilagante, sia dell’opportunismo sia di una disinvoltura morale e professionale talora molto prossima alla repellenza. Se nel calcio esiste uno Special One, sul serio non può essere che uno come lui, pure se il termine gli farà spavento. I giornali hanno già scritto come il 6 febbraio di vent’anni fa, appena esonerato dall’Inter dopo un rocambolesco rovescio interno con la Lazio, Bagnoli disse basta e non mise più piede in un campo da calcio. Eppure aveva solo cinquantotto anni, eppure era stato l’ultimo allenatore a vincere lo scudetto con una provinciale, il magnifico Hellas Verona del 1985, battendo un record che da allora nessuno ha saputo eguagliare.

Ma Bagnoli resta un uomo laconico, renitente ai proclami non per alterigia ma per un senso innato della misura, quasi per un istinto di normalità che per lui è evidentemente inderogabile. Nato a Milano nel 1935, quartiere della Bovisa, in via Candiani dalle parti delle Ferrovie Nord, di famiglia operaia, aveva esordito nel Milan da ala destra vincendo il campionato 1956-‘57, poche partite prima di tornare fra i rincalzi lasciando il posto a un asso quale Tito Cucchiaroni: non era stato un grande calciatore, solo un buon professionista, generoso e affidabile, presto riciclato all'indietro da mediano o battitore libero, flottando fra la A e la B fino al 1973, per chiudere col Verbania dopo avere indossato le maglie di Verona, Udinese, Catanzaro e Spal. Solo i calciatori modesti diventano grandi allenatori, perché del gioco conoscono i difetti in prima persona e, viceversa, individuano d’acchito il talento che non hanno mai avuto: rispetto del lavoro, umiltà, pragmatismo sono infatti, e da subito, i suoi tratti elettivi in un profilo ben riconoscibile. In panchina sta seduto, stringe gli occhi e la fronte gli si increspa di rughe profonde (Gianni Brera, che per lui stravede, lo chiama «Schopenauer»), ha il naso aquilino, soffre di sinusite cronica e porta la casquette degli operai pure quando c’è il sole.

Il primo incarico è a Verbania, dove ha appena smesso di giocare, seguono la Solbiatese, il Como, il Rimini e il Fano in un crescendo di risultati che sempre corrispondono a delle promozioni e dunque, virtualmente, a altrettanti scudetti. Il pubblico all’inizio non si entusiasma ma prende comunque ad amare quell’uomo piccolo e magro, dal profilo schietto e tagliente, un individuo che non ride volentieri e preferisce, quando può, esprimersi in dialetto. Fano è il vestibolo del grande calcio, nella stagione ’78-’79, e lì Bagnoli è già Bagnoli: il poeta fanese Marco Ferri, per esempio, senza avere ricordi specifici ha memoria di un uomo «stimatissimo sia come allenatore sia come persona», chi scrive lo rammenta camminare silenzioso per i vicoli del centro storico, una figura schiva e quasi inapparente. Dopo Fano, due ottimi campionati al Cesena e quindi Verona, dove resta un decennio, dal 1981 al ’90. Gli affidano una squadra di seconda fila, quasi un bricolage di esordienti e calciatori altrove rifiutati, ma lui costruisce uno squadrone.

Nella stagione dello scudetto, il portiere è Garella, non un prodigio di eleganza ma imperioso nelle uscite; poi i terzini Volpati e Marangon (quest’ultimo un mancino incostante ma estroso) e al centro Fontolan con un libero di nitido stile, Tricella; in mezzo al campo, insieme col tedesco Briegel, massiccio e deterrente, è piazzato davanti alla difesa, con funzioni di centromediano metodista, Antonio Di Gennaro, uno dei giocatori più classici e più regolarmente sottovalutati di quegli anni; da tuoni e fulmini è senz’altro l’attacco dove sulla destra agisce Pietro Fanna, un tornante infaticabile ma capace di rifinire e concludere, al centro Giuseppe Galderisi detto Nanu (quasi un Paolo Rossi in sedicesimo) e vicino a lui una forza della natura, l’uomo del contropiede e delle conclusioni più squassanti, l’ineffabile bon vivant Preben Elkjaer Larsen. Quando il Verona vince il campionato, la grande stampa, legata alla tiratura e perciò al tifo maggioritario, finge di lodare Bagnoli ma in realtà lo bolla di passatista e di catenacciaro, titolo da sempre nefando per l’italica demagogia. Solo Brera gongola e scolpisce su Repubblica il ritratto di un «tecnico di piglio schietto e talora burbero, mai insensato o cattivo» aggiungendo, neanche a dirlo, che si tratta di un «pragmatico di caratteristica indole lombarda».

In realtà, il Verona fa girare la palla a centrocampo e aspetta l’occasione per il contropiede però in difesa alterna la zona alla classica marcatura a uomo. Bagnoli è tutto meno che un dottrinario, se la stessa estate dello scudetto, intervistato da Gianni Mura al mare di Cesenatico (L’Osvaldo in riva al mare, ora nella ricca antologia muriana Non gioco più, me ne vado, Il Saggiatore 2013), gli confessa: «Io non mi innamoro di un modulo così per innamorarmi, faccio giocare la squadra in base alle caratteristiche dei giocatori. (…) Una squadra è fatta di equilibrio. Adesso devo solo parlare molto più di prima per spiegare com’è e come non è, la rava e la fava». L’exploit naturalmente è irripetibile e Bagnoli, che non ha mai promesso nulla, se ne va al Genoa per un altro biennio, culminante nell’accesso alla semifinale di Coppa Uefa: il Grifone è battuto dall’Ajax ma prima ha eliminato il Liverpool espugnando addirittura Anfield Road con due gol di Pato Aguilera.

A un certo punto per Bagnoli si profila la panchina del Milan e pare sia proprio Gianni Brera a fare il suo nome al presidente ma gli si fa notare da cotanto megalomane, con una certa compunzione, che è impossibile assumere un notorio «comunista». (In effetti il tecnico della Bovisa, per sua stessa ammissione, è un uomo di sinistra ma ha sempre votato socialista seguendo l’esempio del padre). Invece va all’Inter e per lui è l’inizio della fine, nonostante un ottimo secondo posto nel campionato ’92-‘93. Se al benservito del 6 febbraio ’94 risponde con il ritiro dal mondo del calcio, è evidente che da tempo il suo bilancio, morale e professionale, è andato in rosso e che non ne può più. Questi ultimi vent’anni sono di riserbo pressoché assoluto, l’Hellas gli ha dato un tessera d’onore e capita talvolta che vada allo stadio ma rigetta, con coerenza e persino con ostinazione, ogni proposta di ritorno. Parla meno di sempre, concede rarissime interviste ma in una molto bella, rilasciata ad Alberto Costa del Corriere della Sera l’11 novembre del 2006, dice di essere stato deluso specialmente dai giovani calciatori, che «pretendevano tanto e davano poco» e, a proposito di sé e del suo addio al calcio, si limita a rilevare che quando un insegnante non sopporta più i suoi allievi, allora è meglio che smetta. Come sappiamo, Osvaldo Bagnoli non si è limitato a proclamarlo, ma l’ha fatto. E da autentico maestro, altro che Special One. 

"Il Manifesto", 15 marzo 2014