Raimundo Orsi


Raimundo Orsi

Se fuma il bastimento,
se il naviglio salpa
da Mar del Plata
e i passaporti a vista
pare "segnalino" altri
Sacco e Vanzetti, rauchi
i gendarmi sulle navi
sospettano a oltranza.

Da tutto ciò si salva
Mumo Orsi, e il suo
è un viaggio in cartolina
Delicato e bello è Orsi
- chioma alla Ghigo -
timido e veloce, juventino
e azzurro

"Se potessi avere,
mille lire al mese,
senza esagerare
sarei certo di trovare
tutta la felicità ..."

E' la vita tua dorata
a sollecitar questa canzone
spensierata

Io son Totto, l'otto re di Roma

Roma, 11 settembre 2016


Al termine del primo tempo, la Roma è in svantaggio di un gol sulla Sampdoria, e sulla capitale si scatena Giove Pluvio. Qui la ricostruzione dell'intenso dibattere che, nel lunghissimo intervallo, vide affrontarsi Francesco Totti e Luciano Spalletti.





FT = Francesco Totti, capitaneo di Roma
LS = Luciano Spalletti, condottiero giallorosso
JP = Jacomo Pallotta, mercante delle Indie

(La pugna tra Romani e Doriani è giunta alla metà del tempo)

FT: Deh, segnor mio, fammi giuocar!
LS: V’è un tempo per la pugna e un tempo per la panca.
FT: Or tu forse non vedi li compagni miei moversi pel campo come liocorni zoppi? Li Dorian ne stan facendo strame. Ita a l’inferno è la speme di più vincer.
LS: I consigli, gli stratagemi, gli artifizi miei ignori, o Totto capitaneo.
FT: La disfatta progetti, Spalletto incantator!
LS: Tu se’ un venerabil vecchio, antico cavalliero giunto al fin delle battaglie: io ben t’escuso l’ardire del parlar.
FT: Io son Totto, l’otto re di Roma.
LS: L’ottavo…
FT: Sì, lottai e vinsi, con la mazza e con lo stocco; li inimici schiantai per ogni plaga, gloria ed onor ovunque conquistai. Lo popolo romano grida tutto dì lo nome mio a gran voce, e voce di popolo, ognun il sa, è voce di Domeniddio sempiterno signore che talenti mi diede sovrumani nell’arte della sfera.
LS: L’arte è longa, ma la vita è breve.
FT: Naingolano dunque preferisci?
LS: Egli è crudo, acerbo e insano: m’è utile alla mischia.
FT: E anco que’ duo felloni, anco lor mi stanno innanzi: li perfidi saracin, dico, El Sciaraui e Macometto Salah.
LS: I pagani non temono la morte, né ferute o sfibramento di garretti.
FT: Sciogli il laccio, orsù! Rendimi al terren di giuoco: pace non ho, né triegua.
LS: Le giovenili membra or m’abbisognan, non l’inclita virtù perduta dell’anzian campione.
FT: Ah, avversi fati!
LS: Al bando sei, Totto, e non te ne rencresca.
FT: O che qui morto ho da restare, o ch’io in campo ho da tornar.
LS: Omo sii: cessa il lamentevol pianto.
FT: Sciagure incombono su di noi, il cielo annera, l’ira divina tempesta scatena sull’orgoglio tuo. Vedi i tuoni, odi le saette!
LS: Negromanzie! Superstizion! Sinestesie!
FT: Sdegno celeste invero il chiamo…
LS: Ah! Ma chi vedo di laggiù? Pallotta lo mercante, procacciator de la pecunia nostra.
JP: Spalletto, che fai? Totto fuori? E che mai? Totto la gente ama e idolatra, di lui compra l’armatura col numero X. Io voglio bisìni, merciandare, io non tengo fruttistendo, conto moneta, non posso campar coi frutti. Se perdiamo colpa darem a Totto, se vinciam è grande il gruppo, tu il primo. Deh, non tardar più oltre.
LS: Ah, il maledetto fiorino…
FT: All’armi! Vittoria!
LS: Cedo al vil danaro. Teco sia però lo Slavo Geko: e che Iddio ci guardi.

Mirko Volpi
Il campionato furiosoper "Il Foglio", 13 settembre 2016
Riprodotto su autorizzazione dell'autore

La gran ruina per l'esercito rossonegro

Milano, 2 ottobre 2016.

Il Milan sta rovinosamente soccombendo di fronte alle folate dei giocatori venuti da Sassuolo. Conversazione tra Vincenzio Montella, condottiero rossonegro, Riccardo Montolivo, capitaneo rossonegro, Silvio de’ Berlusconi, lo Cavalliere per antonomasia, Li Yonghong, mercante del Catai.




VM = Vincenzio Montella, condottiero rossonegro
RM = Riccardo Montolivo, capitaneo rossonegro
SB = Silvio de’ Berlusconi, lo Cavalliere per antonomasia
LY = Li Yonghong, mercante del Catai

VM: Soccombe l’esercito rossonegro.
RM: Oh la gran ruina che ci attende!
VM: Riccardo capitaneo, orsù, raccendi l’animo de li compagni tuoi.
RM: A che far? Stendon le nubi un tenebroso velo, che né sole apparir lascia né stella.
VM: Ahinoi… Deh, ma chi vedo? Lo Cavalliero Berlusconi! E seco lui un mercante del Catai…
SB: Vincenzio, forse che giunsi alla mia verde età per veder tal spettacolo pedatorio?
LY: Forse che io venni di Catai a scialacquar quattrini?
SB: Forse che io, messer mercante, vidi già tutti quanti li danari promessi?
LY: Forse che i dignitari del Catai corbellerie soglion narrar?
SB: Forse che… ma qui l’avversario ci martìra e noi ci perdiamo in vane fole!
LY: Capitalizzar vorre’ io!
VM: E io vincer!
RM: E io giuocar!
SB: Consentami, Vincenzio, ma inevitabil fia lo schieramento stravolger quanto prima.
VM: Oh duca, io infatti stimai per aventura…
RM: La buona ventura sol di Giacomo è nel nome: tutto è perduto, anche l’impresa sua.
VM: Oh capitaneo, convienmi dal campo tôrti.
RM: Nol far!
VM: Manuello Locatello sarà della partita.
RM: Ah, le giovinette membra al massacro destinate!
VM: Più desiderabile saria un felino arruncigliato all’istrumento di generazione che udirti favellar in codesta guisa.
RM: Gemo.
VM: Paladini rossonegri, qui si parrà la vostra nobiltate!
RM: Eccomi della tenzon al margine.
VM: Deh, saracin Niango, avanza. E tu, Donnarumma, all’assalto! Gabrio Paletta guidi la difesa e l’indio Bacca sia servito: vibrino le fiere spade nell’aspra battaglia.
RM: Vanità!
SB: Tu perdesti il sole nella tasca, che infiniti addusse gaudii a li sodali miei.
RM: Onusto d’anni e di ferute, nel padiglion m’assido a risguardar del giovene Locatello le gesta. Vecchiezza vien dietro a gran giornate e la gloria sen fugge tuttavia. Ah, ma forse di me ancor i compagni necessità hanno…
SB: Riccardo?
RM: Sì?
SB: La partita è finita.

Mirko Volpi
Il campionato furioso, per "Il Foglio", 4 ottobre 2016
Riprodotto su autorizzazione dell'autore

Djalma Santos


Djalma Santos

Con corrugata fronte
danzi attorno a Gilmar.
Ogni tua foto è una cartolina
anni Cinquanta in bianco e nero:
gli auguri di Onassis
allo Scià di Persia, oppure
crociere in panama
nel Mediterraneo.

Lo stop e il fraseggio
decretarono la maestria
e così emigrasti dalle spiagge
artista fatto.

E la tradizione orale,
tra capanni e cacao,
s'espande col samba
da Leonidas in poi.

Calcio e luoghi comuni

Paolo Soglia (curatore)
Hanno deciso gli episodi
20 racconti sul calcio e i suoi luoghi comuni
Bologna, Pendragon, 2015
Scheda e recensioni

Intervista al curatore

Il calcio, per raccontare se stesso, utilizza in modo ossessivo il luogo comune: è la perenne reiterazione di frasi fatte che costituisce l'epica del pallone, permettendo di rinnovare continuamente il circolo della passione, alimentandone la poetica. Oltre alla rassegna completa delle frasi fatte di ieri e di oggi, in questo volume troverete 20 racconti d'autore di 90 righe (più recupero ...): episodi reali di vita vissuta o storie di fantasia, dotte dissertazioni e arditi parallelismi il cui vero protagonista è il luogo comune calcistico.

Figurine e racconti e canzoni

























Beppe Donadio
Figurine - racconti
Lavagna, Zona, 2011
Scheda

Canzone | Album

Recensione (Gianni Zuretti, Mescalina)

"Ci ho imparato un po' di geografia, con la Panini; anche se Pro Patria non c'era, sulla cartina geografica, e nemmeno Spal. Papà mi aveva spiegato che la Spal stava in Emilia Romagna, ma non era una città. Era un acronimo. Tanto me l'ha citata, la soluzione di quell'acronimo, che ora non me la ricordo. Però da allora so dov'è Ferrara".
 
Un regalo inatteso e dalle dimensioni inusuali - diecimila lire in figurine! - apre questi racconti sull'infanzia e sulla forza delle piccole cose, scritti dal cantautore bresciano Beppe Donadio. I racconti sono collocati tra due campionati del mondo di calcio, quello d'Argentina 1978 e di Spagna 1982. Non perché questo sia un libro sul calcio: è che il pallone per i giovani maschi italiani ha un potere magico, e il massimo torneo internazionale rappresenta per molti una vera e propria iniziazione alla vita. Gli idoli del tempo, eroi dello sport o dei fumetti, fanno capolino da ogni pagina, insieme ai sogni e agli slanci di un'età libera e leggera. E a una città – Brescia – palestra di scontri e di avventure, dipinta come solo un vero cantastorie sa fare.

Bobby Moore


Bobby Moore

Intuimmo la tua classe
dalla chioma educata.

Dalla basetta a riccioli
d'oro.

Eri un obelisco egizio
in un recinto di barbari.

Lateralmente ti muovevi,
studente liceale
conscio di grammatica
e atti puri.

Partecipare alla manovra
era colloquiar col prossimo,
rendere umanista un terzino
e far sorridere uno stopper.

Il rigore più lungo del mondo

di Osvaldo Soriano

Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Río Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto. Estrella Polar era un circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di calcio che partecipava al campionato di Valle perché di domenica non c’era altro da fare e il vento portava con sé la sabbia delle dune e il polline delle fattorie.



I giocatori erano sempre gli stessi, o i fratelli degli stessi. Quando avevo quindici anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano vecchissimi. Díaz, il portiere, ne aveva quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio arcuano. Alla coppa partecipavano sedici squadre e l’Estrella Polar finiva sempre dopo il decimo posto. Credo che nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa ben ripiegata nella borsa perché era l’unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato a vincere per uno a zero con l’Escudo Chileno, un’altra squadra miseranda.

Nessuno ci badò. Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro.

Le vittorie erano state tutte per un solo goal, ma bastavano a far rimanere il Deportivo Belgrano, l’eterno campione, la squadra di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al secondo posto, con un punto di distacco. Si parlava dell’Estrella Polar a scuola, sull’autobus, in piazza, ma nessuno immaginava ancora che alla fine dell’autunno avrebbero avuto ventidue punti contro i ventuno dei nostri.

I campi si riempivano per vederli finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti come armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali quando non avevano la palla. L’allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili, un neo sulla fronte e mozzicone spento tra le labbra, correva lungo la linea laterale e li incitava con una verga di vimini quando gli passavano vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo di sabato perché eravamo più piccoli, non riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male. Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l’uno a zero e porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la terra umida. La sera facevano festa nel postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perché mangiavano le poche cose che conservava nella ghiacciaia.

Erano diventati l’attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al cinema le ragazze accettavano carezze al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando avevano vinto con l’Atletico San Martìn per due a uno. Nel pieno dell’euforia furono sconfitti come tutti quanti a Barda del Medio e sul finire dell’andata persero il primo posto quando il Deportivo Belgrano li sistemò con sette goal. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse stata ristabilita. Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono nella loro litania di laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto al campione.

L’ultimo scontro divenne storico a causa del rigore.

Lo stadio era tutto esaurito e lo erano anche i tetti delle case vicine e il paese intero aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando in casa, replicasse almeno i sette goal dell’andata. Il giorno era fresco e assolato e le mele cominciavano a colorirsi sugli alberi. L’Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che presero d’assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per farli stare calmi.

L’arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva biglietti della lotteria nel circolo locale e tutti quanti capirono che si stava giocando il lavoro quando al quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull’uno a uno e non aveva fischiato la massima punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell’area dell’Estrella Polar e facevano capriole e salti mortali per impressionarli. Sul pareggio la squadra locale era campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto di sé e non concedeva il rigore perché non c’era fallo.

Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta quando la mezz’ala sinistra dell’Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano e portò la squadra ospite sul due a uno. Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita fino a quando Padìn entrò in area e appena gli si avvicinò un difensore fischiò.

Fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente e indicò il punto del rigore. All’epoca, il luogo dell’esecuzione non era indicato con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno a raccogliere il pallone perché l’ala destra dell’Estrella Polar, Rivero, detto el Colo, lo stese con un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare il campo né di risvegliare Herminio Silva. Il Commissario, con una lanterna accesa, sospese la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò lo stato di emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del posto. Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano giocare ancora venti secondi a partire dall’esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Dìaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica dopo, sullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia.

Mercoledì marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune. Avevano formato una lunga fila per battere i rigori contro el Gato Dìaz e l’allenatore con il vestito nero e il neo sulla fronte cercava di spiegare loro che quello non era il modo migliore di mettere alla prova il portiere. Alla fine, tutti tirarono il loro rigore e el Gato ne parò parecchi perché li battevano con ciabatte e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che stava in fila, sparò un tiro con la punta dell’anfibio militare che quasi sradica la rete. Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte.

Dìaz rimase tuta la sera senza parlare, gettando all’indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s’infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse: – Constante li tira a destra.
- Sempre, – disse il presidente della squadra.
- Ma lui sa che io so.
- Allora siamo fottuti.
- Sì, ma io so che lui sa, – disse el Gato.
- Allora buttati subito a sinistra, – disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
- No. Lui sa che io so che lui sa, – disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire.
- El Gato è sempre più strano, – disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso,
camminando piano.
Martedì non andò all’allenamento e nemmeno mercoledì. Giovedì, quando lo trovarono che
camminava sui binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
- Lo pari? – gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
- Non lo so. Che cosa cambia, per me? – domandò.
- Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgrano.
- Io mi consacro quando la rubia Ferriera mi dirà che mi vuole bene, - disse e fischiò al cane per tornarsene a casa.

Venerdì la Rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco entrò con un mazzo di fiori e con un sorriso largo quanto un’anguria aperta.
- Questi te li manda el Gato Dìaz e fino a giovedì tu devi dire che è il tuo fidanzato.
- Poveretto, – disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei fiori che erano arrivati da Neuquén con l’autobus delle dieci e mezza.

La sera andarono al cinema insieme. Nell’intervallo, el Gato uscì nell’atrio per fumare e la rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il programma senza alzare lo sguardo.

Sabato pomeriggio el Gato Dìaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la faccia e disse che forse gliel’avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
- E io come faccio a saperlo? – disse lui.
- A sapere cosa?
- Se mi devo buttare da quella parte.
La rubia Ferreira lo prese per mano e lo portò fino al posto in cui avevano lasciato le biciclette.
- In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato, -disse lei.
- E se non lo paro? – domando el Gato.
- Allora vuol dire che non mi vuoi bene, -rispose la Rubia, e tornarono in paese.

La domenica del rigore partirono dal circolo venti camion carichi di gente, ma la polizia li bloccò all’ingresso del paese e dovettero fermarsi accanto alla strada, ad aspettare sotto il sole. A quei tempi e in quel posto non c’erano né televisori né stazioni radio né qualche altro mezzo per seguire cosa succedeva su un campo chiuso, così quelli dell’Estrella Polar predisposero una specie di staffetta tra lo stadio e la strada.

Il garzone del ciclista salì su un tetto da dove si vedeva la porta di Gato Dìaz e da lì avrebbe raccontato quello che vedeva a un altro ragazzo che stava sul marciapiede e che a sua volta lo avrebbe riferito a un altro che stava a venti metri e così via finché ogni particolare sarebbe arrivato al punto in cui aspettavano i tifosi dell’Estrella Polar.

Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo vestite come se dovessero giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine quando tutti furono schierati a centrocampo andò dritto verso el Colo Rivero che gli aveva dato il pugno la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato inventato il cartellino rosso e Herminio indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia portò via a spintoni el Colo che sarebbe voluto rimanere a vedere il rigore.

Allora l’arbitro andò fino alla porta con la palla stretta contro un fianco, contò dodici passi e la sistemò a terra. El Gato Dìaz si era pettinato con la brillantina e la testa gli risplendeva come una pentola di alluminio.

Noi lo osservavamo appoggiati contro il muretto che circondava il campo, proprio dietro la porta, e quando si dispose sulla riga di calce e prese a strofinarsi le mani nude cominciammo a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante Gauna.

Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e tutti aspettavano quell’istante perché erano dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una coppa né un campionato. Anche i poliziotti volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffette si dislocasse lungo tre chilometri e le notizie correvano di bocca ritmate dalle contrazioni del fiatone.

Alle tre e mezza, quando Herminio Silva ebbe ottenuto che i dirigenti delle due squadre, gli allenatori e le forze vive del popolo abbandonassero il campo, Constante Gauna si avvicinò per sistemare la palla. Era magro e muscoloso e aveva le sopracciglia tanto folte che la faccia ne sembrava tagliata in due. Aveva tirato tante volte quel rigore – raccontò poi – che lo avrebbe rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o addormentato.

Alle quattro meno un quarto, Herminio Silva si dispose a metà strada tra la porta e il pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole gli aveva martellato sulla nuca che quando il pallone partì in direzione della porta sentì gli occhi rovesciarglisi all’indietro e cadde di spalle schiumando dalla bocca. Dìaz fece un passo in avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando su se stesso verso il centro della porta e Constante Gauna indovinò subito che le gambe del Gato Dìaz sarebbero riuscite a deviarlo di lato. El Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuto accorrere per mettere in corner il pallone che era rimasto a rotolare in area.

El petiso Mirabelli arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma Herminio Silva non poteva vederlo perché stava a terra, si rotolava in preda a un attacco di epilessia. Quando tutta l’Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Dìaz per festeggiare, il guardalinee corse verso Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo seduti lo sentimmo gridare : “Non vale! Non vale!”

La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e lo svenimento dell’arbitro. A quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene il “non vale” continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita.

Fino a quando Herminio Silva non si fu rimesso in piedi, sconvolto dall’attacco, non arrivò la risposta definitiva. Come prima cosa volle sapere “che è successo” e quando glielo raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare di nuovo perché lui non era stato presente e il regolamento prescrive che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto. Allora el Gato Dìaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di biglietti della lotteria al Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perché la sera aveva un appuntamento e una promessa e andò di nuovo a mettersi in porta.

Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in se stesso perché propose a Padìn di tirare e solo dopo andò vero la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi. Fuori si sentivano strombazzamenti festosi dei tifosi del Deportivo Belgrano e i giocatori dell’Estrella Polar cominciarono a ritirarsi dal campo circondati dalla polizia.

Il tiro arrivò a sinistra e el Gato Dìaz si buttò nella stessa direzione con un’eleganza e una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli occhi al cielo e cominciò a piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Dìaz, il vecchio, che rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina vincente alla lotteria.

Due anni dopo, quando el Gato era ormai un rudere e io ero un giovanotto insolente, me lo trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo vidi immenso, rannicchiato sulla punta dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva al dito una fede che non era della rubia ma della sorella del Colo Rivero, india e vecchia come lui.

Evitai di guardarlo negli occhi e cambiai piede; poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l’avrebbe parato perché era molto rigido e portava il peso della gloria. Quando andai a prendere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane bastonato.

Bene, ragazzo – mi disse. – Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai segnato un goal a Gato Dìaz, ma nessuno ti crederà.

Il testo è liberamente disponibile in rete qui | Tratto da Osvaldo Soriano, Fùtbol. Storie di calcio, Torino, Einaudi, 1998
Vedi anche Carlo Grande, La vera storia del rigore più lungo del mondo, "La Stampa", 8/1/2010

Cruyff

I ritratti di Eduardo

...

L'Olanda era musica, e quello che guidava la melodia di tanti suoni simultanei evitando schiamazzi e stonature, era Johann Cruyff. Direttore d'orchestra e musicista di fila, Cruyff lavorava più di tutti.

Questo elettrico magrolino era entrato nelle file dell'Ajax quando era ancora un bambino: mentre sua madre lavorava nella taverna del club, lui raccoglieva i palloni che finivano fuori, lucidava le scarpe dei giocatori, collocava le bandierine agli angoli del campo e faceva tutto quello che gli chiedevano e niente di quello che gli ordinavano. Voleva giocare ma non glielo permettevano a causa del suo fisico troppo debole e del suo carattere troppo forte. Quando glielo permisero, non smise più. Ancora ragazzo, debuttò nella nazionale olandese, giocò stupendamente, segnò un gol e fece svenire l'arbitro con un cazzotto.

Poi continuò a essere una testa calda, un lavoratore geniale. Nel giro di due decenni vinse ventidue campionati, in Olanda e in Spagna. Si ritirò a trentasette anni, dopo aver realizzato il suo ultimo gol, portato a spalle da una folla che dallo stadio lo accompagnò fino a casa

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Rivera Rivera Rivera Rivera

























Em Bycicleta (presidio di fabulazione sportiva)
Rivera Rivera Rivera Rivera
Scheda

Ma perché proprio un libro sul dieci milanista? La risposta l’ha data tempo fa Alf Ramsey, mitico allenatore dell’Inghilterra mondiale, che alla domanda su chi fossero i quattro giocatori italiani più forti rispose, lapidario: «Rivera, Rivera, Rivera, Rivera».

Testi di Gianni Brera. Gianni Bertoli, Biagio Goldstein Bolocan, Alberto Brambilla, Oscar Buonamano, Mimma Caligaris, Silvano Calzini, Gino Cervi, Pinuccio Corsi, Stefano Corsi, Emiliano Fabbri, Stefano Fregonese, Claudio Gavioli, Tino Gipponi, Antonio Gurrado, Andrea Maietti, Carlo Martinelli, Dario Mazzocchi, Valerio Migliorini, Marco Ostoni, Frank Parigi, Darwin Pastorin, Gianni Rossi, Luigi Sampietro, Claudio Sanfilippo, Francesco Savio

Eusébio

I ritratti di Eduardo


Nacque destinato a lustrare scarpe, vendere noccioline o borseggiare la gente distratta. Da bambino lo chiamavano Ninguém (Niente, nessuno). Figlio di madre vedova, giocava a pallone coi suoi molti fratelli negli spiazzi di periferia, dalla mattina alla sera.

Fece il suo ingresso sui campi correndo come può correre solo chi fugge dalla polizia o dalla miseria che gli morde i talloni. E così, tirando e zigzagando, divenne Campione d'Europa a vent'anni. Allora lo chiamarono la Pantera.

Nel Mondiale del 1966, le sue zampate lasciarono un mucchio di avversari a terra e i suoi gol da angolazioni impossibili suscitarono ovazioni che sembravano non finire mai.

Fu un africano del Mozambico il miglior giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Greaves

I ritratti di Eduardo

In un film di cowboy sarebbe stato il piede più veloce del West. Sui campi di calcio aveva fatto cento gol prima ancora di compiere vent'anni, e quando ne aveva venticinque non era ancora stato inventato il parafulmine che potesse afferrarlo. Più che correre, esplodeva: Jimmy Greaves si scatenava così in fretta che gli arbitri lo pescavano in fuorigioco per sbaglio, perché non sapevano mai da dove venivano i suoi affondo improvvisi né i suoi tiri secchi. Lo vedevano arrivare ma non riuscivano mai a vederlo partire.

"Desidero tanto il gol", diceva, "che anche il solo desiderio mi provoca dolore".

Greaves non ebbe fortuna nel Mondiale del 1966. Non segnò neanche un gol e un attacco di itterizia lo lasciò fuori dalla finale.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio