Conan Doyle, o come dribblare il mastino del Baskerville FC

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Scozzese, baffuto, corpulento, protagonista assoluto nella allora First Division inglese, il più vecchio campionato di calcio al mondo, e molto popolare anche all’estero nonostante a quei tempi l’Inghilterra rifiutasse ogni contatto con le altre nazionali. Dopo varie esperienze nelle serie minori approdò a Londra, prese un appartamento al 221B di Baker Street e non si mosse più.

Dietro l’aspetto pacioso nascondeva una natura eccentrica e un’intelligenza sottile. Capostipite indiscusso del cosiddetto “calcio deduttivo”, tattica che lo ha reso famoso e tuttora seguita da uno stuolo di fedelissimi seguaci sui campi di tutto il mondo. In breve, Conan Doyle si piazzava nel cerchio del centrocampo e osservava con grande attenzione ogni particolare della partita; poi quando aveva raccolto tutti gli elementi entrava in azione, partiva palla al piede e andava infallibilmente in rete, lasciando di stucco avversari e compagni. La sua forza stava nella fredda logica con cui analizzava i movimenti dei vari giocatori in campo, senza farsi distrarre dalle indicazioni degli allenatori e dalle urla dei tifosi sugli spalti.

Durante tutta la sua carriera ha sempre voluto al suo fianco il fedele Watson, un onesto faticatore del pallone senza particolari doti tecniche, ma a cui Conan Doyle non ha mai voluto rinunciare. Al termine degli incontri, indossava la sua mantellina, si metteva in testa un buffo cappellino da cacciatore a doppia visiera e se ne tornava, sempre insieme a Watson, nello studio di Baker Street, dove trascorreva il tempo libero dedicandosi ai suoi amati hobby, suonare il violino, fumare una grossa pipa ricurva e trafficare con delle strane attrezzature chimiche.
(2013)

L'arbitro

I ritratti di Eduardo

L'arbitro è arbitrario per definizione. E' lui l'abominevole tiranno che esercita la sua dittatura senza possibilità di opposizione, l'ampolloso carnefice che esercita il suo potere assoluto con gesti da melodramma. Col fischietto in bocca, l'arbitro soffia i venti della fatalità del destino e convalida o annulla i gol. Cartellino in mano, alza i colori della condanna: il giallo, che castiga il peccatore e lo obbliga al pentimento, e il rosso che lo condanna all'esilio.


I guardialinee, che aiutano ma non comandano, guardano da fuori. Solo l'arbitro entra nel campo di gioco e giustamente si fa il segno della croce al momento di entrare, appena si affaccia davanti alla folla ruggente. Il suo lavoro consiste nel farsi odiare. Unica unanimità nel calcio: tutti lo odiano. Lo fischiano sempre, non lo applaudono mai.

Nessuno corre più di lui. E' lui l'unico obbligato a correre tutto il tempo. Tutto il tempo galoppa, sfiancandosi come un cavallo, questo intruso che ansima senza sosta tra i ventidue giocatori e, come ricompensa di questo sacrificio, la folla grida chiedendo la sua testa. Dal principio alla fine di ogni partita, in un mare di sudore, l'arbitro è obbligato  a inseguire la palla bianca che va e viene tra i piedi altrui. E' evidente che gli piacerebbe giocare con lei, ma questa grazia non gli è mai stata concessa. Quando la palla, per caso, gli colpisce il corpo, tutto il pubblico rivolge un ricordo a sua madre. E senza dubbio, pur di stare lì, nel sacro spazio verde dove il pallone gira e vola, lui sopporta insulti, proteste, sassate e maledizioni.


A volte, rare volte, qualche decisione dell'arbitro coincide con la volontà del tifoso, ma neppure così riesce a provare la sua innocenza. Gli sconfitti perdono per colpa sua e i vincitori vincono malgrado lui. Alibi per tutti gli errori, spiegazione di tutte le disgrazie, i tifosi dovrebbero inventarlo se non esistesse. Quanto più lo odiano, tanto più hanno bisogno di lui.

Per più di un secolo l'arbitro ha portato il lutto. Per chi? Per se stesso. E ora lo nasconde coi colori.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Su majestad el futbol





















Eduardo Galeano (selección y prólogo)
Su majestad el futbol

Esta antología que la editorial ARCA me ha encomendado preparar, es deliberadamente irregular. Me propuse hacer una especie de collage que incluyera variados testimonios, en prosa y en poesia, sobre el fútbol en sus diversos aspectos y proyecciones. Per eso el lector encontrará aquí reportajes, cuentos, poemas, confesiones y artículos. Los toros han tenido su Hemingway. El fútbol espera todavía al gran escritor que se lance a su rescate. Ojalá este pequeño trabajo sirva como provocación o estímulo: el desprecio y el miedo han hecho del fútbol un tema tabú casi invicto, aún no revelado en toda la posibile intensidad de las pasiones que resume y desata  (Eduardo Galeano - Montevideo, principios del 68)

1968 (prima ed.) - 2000 (seconda ed. ) | Arca (Montevideo)

Testi, fra gli altri, di Albert Camus, Mario Benedetti, Helenio Herrera, Horacio Quiroga ...


José Leandro Andrade

I ritratti di Eduardo

L'Europa non aveva mai visto un nero giocare a calcio.

Nell'olimpiade del 1924, l'uruguagio José Leandro Andrade abbagliò per le sue giocate di classe. Nella linea mediana, questo omaccione dal corpo di gomma spazzava il pallone senza toccare l'avversario e quando si lanciava all'attacco, chinando il corpo, seminava un mare di giocatori. In una delle partite attraversò mezzo campo con il pallone addormentato sulla testa. Il pubblico lo acclamava, la stampa francese lo chiamava "la meraviglia nera".

Quando il torneo terminò, Andrade rimase per un po' ancorato a Parigi. Lì divenne un errante bohémien, re dei cabaret. Le scarpe di vernice presero il posto delle calzature sbrindellate che si era portato da Montevideo, e un cappello a cilindro sostituì il suo berrettino consunto. Le cronache dell'epoca salutano l'immagine di quel sovrano delle notti di Pigalle: il passo elastico da ballerino, l'espressione sfacciata, gli occhi socchiusi che osservano sempre da lontano e uno sguardo assassino; fazzoletti di seta, giacca a righe, guanti bianchi e bastone con impugnatura d'argento.

Andrade morì a Montevideo molti anni più tardi. Gli amici avevano progettato vari festival a suo favore, ma nessuno si realizzò mai. Morì tubercolotico e nella miseria più nera.

Fu nero, sudamericano e povero, il primo idolo internazionale del calcio.

Léônidas

I ritratti di Eduardo

Aveva la stazza, la velocità e la malizia di una zanzara. Nel Mondiale del 1938, un giornalista francese del periodico Match gli contò sei gambe, e ritenne che avere tante gambe era roba da magia nera. Io non so se il giornalista francese fece caso che, oltretutto, le molte gambe di Léônidas potevano allungarsi di vari metri e si piegavano e riannodavano in modo diabolico.


Léônidas da Silva entrò in campo il giorno in cui Artur Friedenreich, ormai quarantenne, si ritirò. Ricevette lo scettro dal vecchio maestro. In poco tempo, il suo nome era già una marca di sigarette e di cioccolatini. Riceveva più lettere di un divo del cinema: le lettere gli chiedevano una foto, un autografo o un impiego pubblico.



Léônidas segnò molti gol, che non contò mai. Molti li realizzò sospeso per aria, coi piedi che giravano, a testa in giù, di spalle alla porta: era molto abile nelle acrobazie della cilena, che i brasiliani chiamano la bicicletta.

I gol di Léônidas erano così belli che anche i portieri avversari si rialzavano per congratularsi.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Stanley Matthews

I ritratti di Eduardo

Nel 1965, a cinquant'anni, Stanley Matthews provocava ancora gravi casi di allucinazione nel football inglese. Gli psichiatri non erano più sufficienti per prendersi cura delle vittime, che erano persone assolutamente normali fino al maledetto giorno in cui erano incappate in questo nonno demoniaco, che faceva impazzire i difensori.


I difensori lo afferravano per la maglia o per i pantaloncini, gli facevano prese da lotta libera o gli tiravano calci degni della cronaca nera, ma non riuscivano a fermarlo perché non riuscivano mai a tarpargli le ali. Matthews era un attaccante, che in inglese si dice winger. Wing significa ala, e Matthews fu il Winger che volò più in alto sopra la terra d'Inghilterra, ai bordi del campo.



Lo sapeva bene la regina Elisabetta, che lo nominò sir.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Le figurine "Calzini"

























Silvano Calzini
Figurine. I grandi scrittori raccontati come campioni del pallone

Cinquanta grandi scrittori raccontati come assi del pallone. Che cosa c'è di strano? In fin dei conti Hemingway con quel suo fisicone e quella sua prosa senza tanti fronzoli è un perfetto centravanti di sfondamento. Quando Garcia Màrquez ci racconta della magica Macondo sembra proprio di vederlo mentre dribbla gli avversari come birilli. Per giocare in porta non c'è niente di meglio di uno scrittore che andava per farfalle come Nabokov. E il fuoriclasse Kafka poi è stato Rivera prima di Rivera. La ricetta è semplice. Basta scorrere la bibliografia di uno scrittore, avere letto qualche suo libro, conoscerne un po' la vita e la psicologia, andare a scovare qualche tic o mania, mettere insieme il tutto, agitare bene ed ecco che viene fuori il ritratto di una splendida mezzala dai piedi buoni o di un roccioso difensore tutto grinta e ardore agonistico. Una galleria calcistico-letteraria per chi crede che la letteratura, quella vera, e il calcio, quello vero, aiutano a vivere. 

Quanta sapienza calcistica e quanta sapienza letteraria Calzini riversa nelle sue figurine! Tutto si confonderà con tutto. Le linee bianche che delimitano il campo e le aree di rigore si sovrapporranno alle righe nere che segnano le pagine dei romanzi. Una grande (e allegra) invenzione letteraria che si tramuta (tutto è metamorfosi nell’album) in una scoperta scientifica. La scoperta che gli scrittori e i giocatori sono una cosa sola, facce della stessa medaglia, che letteratura e football coincidono perché hanno, entrambe, un’identica funzione: servono a far sognare (Antonio D’Orrico)

2014 | Ink Edizioni

Recensioni
Gazzetta dello Sport | Left

L'edicola votiva

di Maurizio De Giovanni 

Ci arrivate facilmente da piazza del Gesù, lasciandovi dietro l’obelisco, faccia verso il ventre della città antica. Un pezzo di decumano inferiore, ma solo un pezzo, un paio di centinaia di metri. Camminerete per una via stretta che trasuda lacrime e risate, pezzi di Compagnone, Rea e De Filippo proveranno a distrarvi insieme a Santa Chiara e San Domenico Maggiore, ma voi continuate.

Piazzetta Nilo, detta “il Corpo di Napoli”, il nucleo greco con la mitica fonte del fiume sotterraneo Sebeto, sarà l’ultimo tentativo di fermarvi. Ancora quattro passi e ve la ritrovate sulla destra.

Magari ci sarà un po’ di gente, turisti che scattano foto ridacchiando e sfottendo nella propria lingua l’ingenuità di un popolo straccione e cialtrone, reso simpatico dalla propria manifesta inferiorità culturale.

A prima vista è uguale alle migliaia di edicole votive che punteggiano le mura dei quartieri antichi: un finto tempietto con due colonne ai lati e un transetto spiovente, l’immagine del Santo celebrato, qualche icona che ne ricorda i miracoli, addirittura una reliquia. Ma la religione romana e il martirio stavolta non c’entrano; stavolta c’entrano il Sudamerica, la vittoria e l’effimero. Sempre di fede si tratta, comunque.

Il volto santo è quello di Diego Armando Maradona, il più grande calciatore di tutti i tempi; la reliquia è un suo capello; i miracoli sono i due scudetti e la coppa Uefa.

Dover raccontare la città attraverso una sola immagine e scegliere questa è sicuramente un azzardo. Più semplice sarebbe stato andarsi a cercare uno scorcio di ordinario degrado, spazzatura, camorra, spaccio, pizzo; o anche antichi profumi, mare, sole, cozze e mandolino. Però si deve ammettere che il testacoda tra Fede ed effimero, l’accostamento cardiovascolare tra l’inutilità di un pallone e la necessità di una gioia è un modo affascinante di raccontare l’anima nuova di Napoli.

A pochi metri dal Cristo velato e da tutte le antiche sacralità, qualcuno ha deciso di dedicare un minuscolo luogo di culto a chi di recente ha erogato la maggiore gioia alla città. Si narra di un fortunato tifoso, passeggero casuale collocato dal destino e dall’Alitalia proprio dietro all’Augusto Pibe; si racconta di un gesto furtivo, col quale il suddetto tifoso abbia intascato il pannetto copripoggiatesta sul quale il Suddetto aveva dormito poco e male durante il viaggio; che dal pannetto sia stato asportato un capello riccio, lungo e nero. E’ appunto attorno a quel capello, scosso gioiosamente al vento in occasione di tanti gol, sommerso da docce di champagne dopo tante vittorie, che è sorta l’edicola.

Ad amministrarne con cura, pulizia e ordine è il barista retrostante, che in cambio raccoglie l’opportunità della consumazione dei turisti fotografi contraccambiando peraltro la cortesia con uno dei migliori caffè del mondo. Sorseggiandolo, vi prego di riflettere prima di dare frettolosi giudizi sulla supposta stupidità di un popolo che, sommerso da tante disgrazie e atrocità, si butta con tanta passione su qualcosa di vano e fuggevole. Pensate a quanto sia necessario un sorriso, una gioia per chi fronteggia la quotidiana sofferenza. Pensate a cosa abbia rappresentato ritrovarsi, una volta tanto, sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo per qualcosa che non fosse l’ennesima sconfitta sociale, ma una grande vittoria. Pensate a sei milioni di napoletani nel mondo della prima, seconda o terza generazione che piangono di gioia in silenzio, sognando una città che forse non hanno mai visto ma alla quale sentono di appartenere ancora. E a quanta saggezza ci sia nel voler tenere stretto il sacro pensiero di tutto questo.

E quando il barista, sorridendo con aria furba, vi dirà: “dotto’, ci pensate? La scienza va avanti. Magari un domani, con quel capello, Lo potranno pure clonare; così vinciamo un altro paio di scudetti!”, vi prego: valutate la possibilità di sorridere anche voi.

(2012)
Il testo è liberamente disponibile in rete qui |  Maurizio De Giovanni