Una locomotiva simpatica e
qualche vagone carico di legname, ciù ciù ciù. Ma qui non è Rio Bo, e l’ombra
oscura della torre dello Spielberg ce lo ricorda. E il ron ron di fondo della
raffineria, gattona nera accovacciata sembra confermare l’impossibilità di
oltrepassare la frontiera. Neppure con lo sguardo.
Ora d’aria, finalmente. Non c’è niente di meglio che scendere – in fila
per due e ricordatevi che non si può parlare! – ai prati nella valle. Quattro
campi da calcio. Porte in ferro, color ruggine. Campi da sette o da nove, ma si
gioca anche in undici contro undici, e si può arrivare ben oltre. Qui si può parlare e correre e giocare. A
pallone, naturalmente.
Sfide accese in cui si mette in palio il proprio orgoglio, e non solo.
Qui in Lombardia i ragazzi nati a metà degli anni cinquanta tifano solo per gli
squadroni, Milan Inter Juventus. Poco altro, e non conta. In questa valle di
lacrime, giocare è vivere. Anche se a volte, d’inverno, scende una nebbia
fradicia e il freddo ti costringe a subire stilettate a cominciare dalle spalle
e poi giù, correndo sul filone della schiena. Maglietta di cotone. Pantaloncini
corti d’ordinanza. Guanti verboten. Sebbene nella massima estensione, i
calzettoni non arrivano al ginocchio. Restano venti-trenta centimetri scoperti.
Se non corri muori assiderato.
Qui da noi contano solo gli squadroni. Quando parlo di Pro Patria, nei primi anni sessanta, mi
guardano come fossi un marziano. Ma io tengo duro, è quella la mia squadra, la
squadra di mio padre e dei miei avi. L’ho vista una volta sola prima d’essere
rinchiuso a dieci anni. Pro Patria Napoli 2-2, doppietta di un certo Canè, non
so se mi spiego (fu il primo impatto con un vero ‘negretto’, ma questa è
un’altra storia). Capivo poco di football,
ma quella maglia a strisce orizzontali non l’ho mai dimenticata. Unica.
Duelli all'ultimo sangue. È l’Inter la
squadra da battere, in Italia e nel mondo. Quasi tutti i ragazzi qui stravedono
per i nerazzurri. È l’unica libertà concessaci, di scegliere la squadra che ci
terrà un po’ di compagnia. Perché i giorni e le notti senza i genitori sono
difficili, lo sai?
Sotto la statua del Curato d’Ars si sussurrano giaculatorie oscene. E all'ombra degli alberi o negli angoli bui dei cessi si scambiano le prime
figurine. Quelle dell’Inter sono le più ricercate. Sarti-Burgnich-Facchetti
pregate per noi. Il beato Luisito ci protegga e l’Angelo Domingo sia sempre a
noi vicino.
All'arma bianca sono i duelli, soprattutto quelli del sabato, quando al
pomeriggio non c’è scuola. Allora la valle non è più solo di lacrime e si anima
di energie e pulsioni a stento trattenute. Da una parte chi tifa per l’Inter, dall'altra una squadra mista Milan-Juventus, per una volta quasi fratelli. Ma
senza esagerare.
Non sono male io, anzi. E chi mi ha visto giocare lo può testimoniare. D'altronde non sono molte le possibilità per sopravvivere all'aridità dei
sentimenti. Ala o mezzala, meglio a destra, ma se occorre gioco a sinistra.
Inseguire un pallone di gomma piena e dura è la sospensione del dolore,
l’anestesia più dolce che abbia mai provato.
Ma tradire no, non è possibile. Inter, Juventus e Milan per me pari
sono. Mi fanno schifo, anzi non esistono proprio. Io ho in testa la
Pro Patria e delle figu Panini ho nel mio
armadietto solo quella di Enrico Muzzio. È l’unico ex della Pro Patria nella
collezione 1966-67, ed ora gioca nella Spal.
Io sono nato a Busto Arsizio undici anni fa, non posso tradire. Neppure Sant'Antonio dalla barba bianca me lo può chiedere, neppure padre Ignazio. Così
mi autoescludo. E non c’è niente di più triste di pomeriggi come questi.
Passati in piedi, freddo fuori e gelo dentro. Si scannano dietro un pallone i
miei fratelli, ma io sono diverso. Ora me ne accorgo.
Mi presto a fare il raccattapalle, per muovermi un po’ e stordirmi. Ma
quando la sfera vola fuori campo, dopo i primi arbusti e il rivo strozzato e
maleodorante dell’Olonella… Allora ho come uno stordimento, vacillo, annaspo.
Fingo di non ritrovare il pallone, ma l’ho già in mano e faccio di nascosto due
o tre palleggi. Dietro i rovi.
Mi chiamano. Pretendono di giocare gli stronzi, i fortunati. E anch'io lo potrei, se solo dichiarassi la mia fede, in fondo sarebbe la mia seconda squadra. Non tradirei nessuno. No, non posso. Avvinghiarmi con le unghie a quel vecchio albero, alla Pro Patria intendo, è un modo per crescere di dentro, è un modo per non morire senza identità.
Mi chiamano. Pretendono di giocare gli stronzi, i fortunati. E anch'io lo potrei, se solo dichiarassi la mia fede, in fondo sarebbe la mia seconda squadra. Non tradirei nessuno. No, non posso. Avvinghiarmi con le unghie a quel vecchio albero, alla Pro Patria intendo, è un modo per crescere di dentro, è un modo per non morire senza identità.
Ma ora non posso più sopportare la visione di quelle maglie variopinte
che si mescolano e s’azzuffano e si allontanano senza una logica apparente. Non
c’è niente di più triste di pomeriggi come questi, passati a contemplare
l’altrui felicità.
Woow woow ciù fa il Gibuti, woow woow, woow woow ciù ciù ciù. Per un
attimo l’incontro si interrompe e io posso ritornare come gli altri, partecipe
del medesimo destino. Ciao Africa, addio. Si allontana il treno e tutto passa,
tutto se ne va. Anche il dolore passerà. Come i treni a vapore, come i treni a
vapore. Ma questo l’avrei capito anni dopo. Woow woow, woow woow ciù ciù ciù.
Si avvia probabilmente ad una nuova vittoria, l’Internazionale di
Milano. Che è tallonata da una sorprendente Juventus. Sarà quel che sarà. A me
poco o nulla importa e lo confesso alla figura austera di Dante Alighieri,
dipinta alle pareti del cortile centrale del Collegio, insieme agli altri
grandi. Sono ventidue, come dire due squadre di calcio. Sono visioni, allucinazioni mentali di questa tarda primavera che
finalmente ha invaso il mondo e scaldato la prigione.
Mese di maggio, mese delle rose. E della mistica e vera Rosa, mese della
Madonna, come ci ripete ossessivamente padre Ignazio. Per noi mese in cui si
decide il campionato, mese della resa dei conti. La spavalda e anzi superba
Inter è chiamata ad un’altra finale nella Coppa dei Campioni. Sarà Lisbona la
città designata, il Celtic l’avversario.
Senza farmi vedere dai compagni, guardo in classe sulla carta geografica dov'è Lisbona, un punto nero sull'arancio Portogallo. E devo salire sulla sedia
per raggiungere la verde Scozia, so già che il Celtic è la squadra di
Glasgow.
Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24
maggio. Ma nella mia storia personale è il 25 maggio il giorno fatale, anche se
allora non lo potevo sapere. Lisbona, 25 maggio 1967, finale Inter-Celtic.
L’insolita generosità di padre Ignazio, sollecitata da pressioni nerazzurre di
varia provenienza ma di sufficiente intensità, ci concesse di vedere quella
sera alla TV lo scontro tanto atteso.
Ma non da me. Che fui obbligato – tacere bisognava e andare avanti
– a restare coi compagni in refettorio
per assistere all'incontro L’occhio semidivino si ergeva in un angolo,
scatolone di vetro e legno sorretto da lunghe leve metalliche. Io attendevo
l’evento con curiosità e fastidio, anche se era comunque un diversivo rispetto all'ora di studio obbligatorio, e all'oretta passata finalmente nel cortile, ad
ascoltare il ronfare lontano della gatta-raffineria, pensando ai fatti miei.Dopo ripetuto scatarrare seguito all'accensione (e alla non corretta
sintonia), lo scatolone incominciò a vomitare immagini, anzi ectoplasmi
luminescenti. Infine padre Ignazio con l’ausilio forse di santa Maria Goretti,
o comunque di un influente spirito, riuscì a catturare le prime immagini.
Mancavano pochi minuti al collegamento.
Sulle sedie di legno e metallo aspettavamo in sofferto silenzio il
calcio d’inizio. Era comunque quello un giorno speciale. Una piacevole
eccezione rispetto ad una vita regolata dagli altri. Tornavamo per un momento
padroni del nostro tempo, o almeno così ci sembrava. Infine ecco il
collegamento, accompagnato da un brusio di tensione e di ammirazione per lo
scatolone magico che ci trasferiva a Lisbona.
Mentre scorrevano le prime immagini in bianco nero, non molto nitide, a
causa della lontananza dell’evento, mi parve di intravedere un lungo striscione
con la scritta BUSTO ARSIZIO, collocato proprio sopra le panchine degli
allenatori. Ebbi come un mancamento. Dietro a quel nome c’era un grumo
d’affetti, una storia, le radici, la lontananza… Ma fu solo un lampo e forse fu
frutto della mia eccitazione o della stanchezza.
A quel punto subentrò la voce di Nicolò Carosio, l’aedo per eccellenza,
l’Omero prediletto. Incominciava ad inquadrare la partita, dando le formazioni
delle squadre. Ad un tratto apparvero alcuni giocatori, l’Inter con la solita
maglia nerazzurra, gli avversari… con una maglia a me stranamente familiare. In
quel preciso momento irruppe la voce del telecronista che descriveva la maglia
del Celtic, definendola “a strisce orizzontali… tipo Pro Patria”.
“Tipo Pro Patria!”, “Tipo Pro Patria!” ripetevo come una
giaculatoria-scioglilingua. Qualche compagno mi guardò all'improvviso io
dovevo apparire loro come un San Luigi di luce incoronato. Mi mordevo le labbra
stringendo i pugni sotto il lungo tavolo di formica verdolina. Allora ebbi
un’illuminazione e poi una certezza: mai e poi mai avrebbe vinto l’Inter contro
la mia Pro Patria miracolosamente
trasferita – non era accaduto qualcosa di simile a Loreto ? – in terra scozzese
e poi lusitana. Mai.
Alb