“Chi si è mangiato la salamella?”, è la domanda retorica che Giovanni formula a se stesso, esplorando scientificamente gli spazi siderali del freezer, cercando e non trovando il cartoccio bianco e umido, tastando pacchetti e confezioni sperando nel morbido approccio o di abbrancare la corda che unisce le estremità della salamella. In effetti il freezer è ben frequentato, assomiglia a un club esclusivo alto-borghese, bottiglie di champagne dialogano in francese con il camémbert, tavolette di cioccolato Lindt e spezzoni di raffinato Emmenthal si scambiano notizie su come aprire conti cifrati nelle banche svizzere, solo un Bauer al limone guarda di traverso la Mazda da cinque volts (“cosa ci fa qui?”) che a sua volta ha i modi arroganti e orgogliosi di un ex-dissidente emigrato dall'inferno di Chemnitz, e del resto non è detto che si senta a proprio agio in quella compagnia, tanto più che al suo fianco, vicino al polo negativo, un etto di pecorino trasuda beato come un italiano medio in vacanza, e ammorba i saporosi rigurgiti di una mozzarella di bufala, adagiata sul piattino burroso dove prima c'erano due grappoli d'uva e prima ancora (“possibile?”, si interroga Giovanni) quel che rimaneva dell'ultima salamella.
“E allora cosa mi porto allo stadio?”, piagnucola, “cosa metto nel panino?”. “Io”, si propone il camémbert, “no io”, lo spinge via la mozzarella di bufala, “porta me, ti prego, non sono mai stata a San Siro”, spunta fra i due una tavoletta di Lindt. “C'è il derby, vero?, unoicsdue, pronostico facile”, si candida discretamente e per ultimo il pecorino rammollito. Dopo lungo meditare, palpare, annusare ed assaggiare, Giovanni agguanta la Mazda, che non oppone resistenza e si lascia collocare dolcemente nel bagagliaio della radiosveglia, dove tuttavia non credeva di trovarsi circondata da tre Superpila vocianti e conformiste (“Milan, Milan, Inter, Inter!”, cantano già, all'unisono e a squarciagola), e “dunque mi ha incastrato!”, è il pensiero acido e rancoroso che rivolge a Giovanni, un attimo prima di veder calare sopra di sé il sipario e di sentirsi sfiorare il polo positivo da un'appiccicosa linguetta di scotch.
“Comprerò pane e porchetta fuori dallo stadio”. Giovanni non ricorda già più dove ha dimenticato la microscopica radiosveglia, ma non ha tempo di cercarla, si infila il cappotto, si avvolge la sciarpa al collo, spolvera ben bene e riarrotola la bandiera e poi parte all'avventura, avvertendo già i primi, tipici sintomi di questa giornata speciale, le gambe che tremano, le vertigini, la fame nervosa, l'ansia di arrivare prima degli altri, e trovare un biglietto e un comodo posto di gradinata, in asse perfetto con la linea di gesso tracciata sul campo, a metà campo.
E' una giornata speciale, per combinazione la domenica del derby quest'anno cade proprio nel giorno di Sant'Ambrogio, purtroppo però la nebbia è fittissima, il freddo glaciale, “e mai una volta che ci sia il sole, il sette di dicembre”, si rammarica Giovanni, mentre cerca di annegare l'angoscia nel Campari, in un bar di via Torino all'altezza del tempio civico, quando a occhio e croce non saranno ancora le nove e per strada circola solo qualche tram (vuoto), e mentre il fiorista di San Satiro beve un caffè in piedi al suo fianco e si lamenta del freddo e controlla sul Giorno le previsioni per oggi. “Solo cinque metri di visibilità fuori e qualcuno di più in città”, ha il tempo di proferire prima che una goccia di Lavazza gli si incagli tra la faringe e i polmoni, costringendolo a tossire e a bestemmiare. “Infatti. Avete visto il duomo?”, si intromette il barman, “la madonnina: sparita, volatilizzata. Cioè, non si capisce se è sparita o se la nebbia è talmente fitta che non si vede. Sia come sia”. Giovanni neanche lo ascolta, “se continua così è difficile che si giochi oggi pomeriggio”, dice rivolto al fiorista, con gli occhi di uno cui piacerebbe essere tranquillizzato. Quell'altro, ormai sul punto di soffocare, si limita a mostrare il pugno, divaricando faticosamente l'indice e il medio in segno di vittoria, e Giovanni non può fare a meno di toccarsi qua e là e di portare subito dopo la mano allo stomaco, dove una terribile fitta nervosa lo ripiomba nella catalessi fanatica e pessimista, nel terrore, e in ultima analisi sono proprio questi i sintomi più evidenti che oggi, proprio oggi, si gioca l'attesissimo derby del girone di andata.
Fino a piazza Duomo sono quattro passi, una sola fermata di diciannove, Giovanni li percorre a piedi, in via Meravigli prenderà il ventiquattro, destinazione Axum (piazzale dello Sport), certamente nota che l'atmosfera si sta vivacizzando, c'è qualcosa di elettrico nell'aria, qua e là si formano capannelli, la gente discute, “stasera oltretutto c'è anche la prima della Scala”, è davvero una giornata speciale. Noterebbe anche, se avesse un briciolo di sensibilità, che in piazza Duomo sta accadendo qualcosa di strano, pare che mezza città si sia svegliata all'alba per darsi appuntamento lì. “Ci saranno i bagarini che vendono gli ultimi tagliandi”, pensa Giovanni, deve verificare, anche lui purtroppo è tuttora senza biglietto, per quanto non disperi, anzi. “Quanto per un popolare?”, domanda al primo che capita.“Cosa?”, gli risponde quello, in effetti c'è molto rumore, bisogna gridare. “Un popolare, dicevo. Quanto chiedono?”, l'informazione è fondamentale, “sa, più di cinquecentomila non sono disposto a spendere”. L'uomo è del tutto disinteressato alla questione, come tutti gli altri che affollano la piazza guarda mesto verso il cielo, anzi verso le guglie del Duomo, anzi per essere precisi verso la guglia più alta del Duomo, dove si nota la mancanza di qualcosa, anzi di qualcuno, per la precisione della madonnina, faro della necropoli, stella della cattedrale, pennacchio lucente nei cieli grigi e fatiscenti della Padania glaciale e nebbiosa. Giovanni si avvicina a un gruppo di anziani, che argomentano logicamente. “E' inutile, non c'è bisogno del cannocchiale, la nebbia si è alzata di un pelo, si vede benissimo che non c'è”, sentenzia uno. “Com'è possibile, ieri sera c'era ancora, l'ho vista con i miei occhi, la piccinina”, interviene un secondo, in lacrime. “Miracolo, miracolo”, catechizza un terzo, esasperato, e nega di aver udito nel cuore della notte il suono della sirena di un antifurto provenire esattamente da lassù, dalla cima del Duomo. “Scusate, a nessuno avanza un popolare? Offro quattrocentocinquantamila”, si intromette Giovanni.
“Su, circolare, circolare”, interviene finalmente un vigile, che spintona Giovanni verso l'imbocco della galleria: “se a lei interessano i biglietti di loggione per stasera vada a mettersi in fila come tutti gli altri, davanti al teatro, anche se credo che sia troppo tardi, ormai”. Giovanni si trova suo malgrado incanalato nella fiumana spontanea che sta dilagando chiassosa e perplessa in piazza della Scala. “Ehi, non spinga, per favore, le cedo il mio posto in fila, non sono un melomane”, urla nell'orecchio di quello che lo segue, “lei sembra morso dalla tarantola, abbia fede, troverà posto senz'altro”. Invano cerca di divincolarsi e tornare indietro, adesso ci vorrà mezz'ora prima che passi un altro ventiquattro, ne ha appena visto uno con la coda dell'occhio, che si allontanava verso piazza Cordusio. Rattristato, bada perlomeno a non farsi travolgere, e si lascia rimorchiare dolcemente fino in piazza della Scala, e certamente nota, anche se non possiede grande spirito di osservazione, che da tutte le strade adiacenti sbucano uomini e donne, e come api impazzite si vanno ad ammassare intorno al favo, l'aiuola sistemata nel centro della piazza, che circonda, o per meglio dire circondava la statua di Alessandro Manzoni. “Almeno il piedistallo, c'è ancora?”, si informa uno che domanda di rimanere anonimo. “Quelli davanti dicono vi siano tracce di una colluttazione, l'Alessandro è robusto, non si sarà lasciato portar via così facilmente”, echeggia voci infondate un improvvisato interlocutore. “Ma no, non l'hanno rapito, è lui che se n'è andato, quando ci sono gli spettacoli la sera non riesce a dormire”, lo sbugiarda un terzo che al posto del Manzoni si sarebbe comportato nello stesso modo. Un quarto zittisce tutti quanti: “ha lasciato un biglietto, se non altro dice che tornerà, forse questa sera stessa, al più tardi domani, dice anche di avvisare i parenti”. Giovanni approfitta della situazione per salire sul piedistallo vacante, “cinquecentomilacinquecento per un popolare, ultima offerta”, arringa la folla sottostante, e nel frattempo, in mezzo alla gente, ha fatto capolino il borgomastro (“almeno lui c'è ancora”, sussurra un neonato), accompagnato dalla corte dei miracoli, e insieme alle autorità (che nulla confermano e nulla smentiscono circa la “presunta” scomparsa del Manzoni) sopraggiungono anche le prime avanguardie della polizia a cavallo. Un poliziotto a piedi intima a Giovanni di scendere dal basamento, con modi perentori e sbrigativi, anzi ultimativi: “o lei va a bagarinare altrove, o mi segue in questura. Anzi, senz'altro mi segue in questura”, e lo spintona dentro il cellulare. “No guardi, è un tragico errore, mi lasci pure in via Meravigli”, si ribella Giovanni, che per fortuna riesce a chiarire l'equivoco e a farsi accompagnare fin sulla piattaforma posteriore, fino alla macchinetta obliteratrice del ventiquattro fermo in via Meravigli, ultimo di una lunga carovana di tram in sosta forzata, impossibilitati a disimpicciarsi dall'abbraccio fatale delle nebbie e delle folle incredule, scese per strada a farsi domande e darsi risposte, in molti casi rispondendo con altre domande.
Bisognerebbe esserci passati, per capire cosa significhi alzarsi all'alba la domenica del derby, quando guarda caso coincide col giorno di Sant'Ambrogio, che per tradizione è anche il giorno che inaugura la stagione della Scala, e sapere che non ci sarà modo di scongiurare e tanto meno di placare l'emorragia di ansie e di pessimismi che già rigonfiano la bocca dello stomaco; e soprattutto cosa significhi ritrovarsi intorno alle undici sul tram (destinazione Axum ben in vista, grazie a un cartello sistemato davanti, appeso al vetro, di fianco al conducente) fermo, incolonnato, imprigionato nelle strade del centro, dove impazzano una quantità imprecisata di fenomeni indecifrabili, dove le voci si rincorrono, si accavallano e si afflosciano da sole, mentre svolazzano le civette della polizia, i blindati dei carabinieri, la fanteria a cavallo dell'esercito della salvezza, le prime edizioni straordinarie dei giornali, quando il city-manager ha aperto ufficialmente la caccia alla volpe, la caccia alle streghe, la caccia ai latitanti, la caccia al tesoro, sì, anche la caccia al tesoro, in fondo si tratta pur sempre di una sagra paesana. “Quanta gente senza biglietto”, pensa Giovanni osservando preoccupato e malinconico il corteo che fende impietoso via Meravigli, raddoppiando in corso Magenta e decuplicando non appena si materializzano le prime bancarelle che annunciano la prossimità della basilica, che è poi esattamente quella dedicata al santo di cui oggi si festeggia l'onomastico. “In questi casi sarebbe opportuno che l'ATM programmasse servizi alternativi, percorsi meno ingolfati”, esplode Giovanni in faccia al conducente, appena scorge un venditore ambulante di torroni e zucchero filato, all'incrocio con via Nirone.
“Meglio andare a piedi, faccio prima”, si congeda alfine e, ancora in precario equilibrio sull'ultimo scalino della porta centrale del Jumbo in avaria, viene inevitabilmente risucchiato dal turbinio caramelloso e colorato dei bambini che, tenendo per mano i padri, e strattonando e spingendo e spendendo, saltellano di qua e di là, da un carretto all'altro, fra un mangiafuoco e una pesca di beneficenza, fra un arrotino e un antiquario. “Biglietti, bigliettiii !”, Giovanni si precipita verso il chiosco artigianale da cui proviene l'urlo, una garitta di plastica e vetro, e fa capolino allo sportello. “Un popolare, grazie, quanto fa?”, chiede ansioso, ha già il portafoglio in mano, ha già contato i soldi e calcolato il resto. “Solo lotteria di capodanno, biglietti vincenti, vengano lorsignori”, lo disinganna il cieco, ignorandolo. Ma ecco che, improvvisi e simultanei, i due campanili della basilica chiamano il popolo a raccolta. “Inizia la messa, non se la perda che oggi è in rito ambrosiano”, è il consiglio disinteressato che un passante, inosservato dai più nonostante l'aureola e il costume da arcivescovo, non manca di rivolgere a Giovanni, pur nell'urgere travolgente della falcata, nell'empito della fuga. “I campanari di una volta erano più delicati”, fruga nella propria memoria una donna che oltrepassa il mercimonio sfrecciando nella direzione opposta a quella del passante mascherato, frenando a pochi passi dalla pusterla, dove Giovanni ora nota un gesticolare di monaci e di canonici, anzi più che altro un litigioso confabulare. “Eccoli, gli ultras, sicuramente stanno discutendo sulle ultime scorte di tagliandi”, si illumina, avvicinandosi al crocchio. “E' andato di qua”, suggerisce l'arciprete, “no, di là”, assicura il sacrestano, “dividiamoci”, li mette d'accordo un monaco riformato, e tutti cominciano a correre indiavolati, mentre le campane propagano l'allarme e ognuno tutt'intorno ha ormai saputo che Sant'Ambrogio, divelto il prezioso e argenteo scrigno nel quale era rinchiuso da sedici secoli, è scappato con l'oro dei seguaci, ingrato e imperscrutabile. “Proprio il giorno della sua festa, vecchio birichino”, piange lacrime dolorose e inconsolabili di madre tradita, sulla spalla di Giovanni, la donna di prima, nello sfondo attonito della basilica annerita di smog e gocciolante di muffa e di brumosa foschia caliginosa.
A mezzogiorno Giovanni è in solitario cammino verso la sua meta periferica, sul lungo viale che da piazzale Lotto conduce fino allo stadio, finalmente un angolo di metropoli silenzioso, deserto, non contaminato dai clamori del centro, si vedono macchine posteggiate qua e là, ma poche, sono quelle dei residenti, solo il muro di cinta dell'ippodromo ha qualche fremito nervoso, più che altro è bello ascoltare il suono ovattato dei passi sull'interminabile tappeto di foglie secche, e Giovanni pregusta un pomeriggio di gloria, “magari a quest'ora è possibile trovare un popolare a prezzo di saldo”, ed è vero, non c'è in giro anima viva, l'atmosfera è surreale, del resto anche la nebbia contribuisce, ma è “la quiete che precede la tempesta”, e Giovanni comincia a ripassare i cori della curva, a sventolare la bandiera.
“Ehi, lei, mi dica ...”, l'attenzione di Giovanni è d'un tratto richiamata dalla voce di un uomo, sporgente dalla sommità di un palazzo che si intravede appena ai margini del percorso: “... mi dica, lei viene dal centro, non è così?”. “Sì, vengo dal centro”, conferma Giovanni. “Senta, è vero che hanno sospeso la prima del Barbiere di Siviglia, questa sera, sa, avevo un biglietto di platea, in seconda fila, alla radio hanno intervistato il capo della polizia, ha detto che siamo in emergenza totale, che c'è il rischio di incidenti ...”. “Sì d'accordo, c'è la nebbia, ma oggi si gioca, dia retta a me, è sempre andata così”, risponde Giovanni con l'aria di uno che la sa lunga, e aggiunge “pensi un po', è il mio novecentesimo derby d'andata, è dal primo dopoguerra che non ne perdo uno”, ma non fa in tempo a smettere di vantarsi che quell'altro, con un tonfo sordo, è rovinato al suolo a pochi metri da lui, e vi giace esanime, incosciente, probabilmente in coma o in prognosi riservata. “Comunque, vinca il migliore, e non lo dico per scaramanzia”, si congeda Giovanni, preoccupato di raggiungere un furgoncino fumante e benaugurante, che si staglia come un miraggio in quel pallido e spesso orizzonte. “Pane e porchetta”, ordina, paga e ringrazia.
E' nel piazzale antistante la voragine dove, fino a qualche ora fa, si ergeva imponente e minaccioso lo stadio di San Siro, che Giovanni viene quasi investito da una limousine lunga quindici metri, recante a bordo, oltre all'autista, un uomo dall'aria distinta, ottocentesca, e una donna avvolta in un lungo scialle dorato, espressione molto devota. “Scusi signore”, si informa l'autista, “la strada per San Siro?”. “Come sarebbe a dire la strada”, si abbassa Giovanni per meglio vedere in faccia il suo interlocutore, “siamo a San Siro, non vede?”, e indica l'informe spazio occupato dal vuoto che galleggia al di sopra del gigantesco precipizio. “Io non vedo niente, Ambrogio”, interviene severo l'uomo che freme sul sedile posteriore. “Ma Alessandro, non vedi niente perché c'è troppa nebbia, e poi non hai gli occhiali, te li dimentichi sempre”, la donna al suo fianco prende immediatamente le difese dell'autista. “Tu Mary stai zitta, che nemmeno conosci il significato di certe parole, tipo derby, football, penalty, e inoltre non sei mai venuta allo stadio, e poi se c'è qualcuno che ha sempre la testa fra le nuvole sei proprio tu”, tronca definitivamente il discorso l'uomo, con piglio autoritario.
“Scusi, non ci siamo già visti un paio d'ore fa, davanti al cieco che vendeva biglietti della lotteria?”, fa Giovanni rivolto all'autista. “Può darsi, è li che ho acquistato gli ultimi tre popolari, a quindicimila, ma adesso temo che siano tagliandi contraffatti”. “Ambrogio, muoviamoci che è tardi, non troviamo più un buco per posteggiare”, si innervosisce quello dietro, che sembra il capo, “e tu Mary copriti le gambe, che ti vedono tutti”. Si immischia un carabiniere (“documenti, per favore”), balzato fuori da una gazzella in corsa, ma non fa in tempo a rialzarsi che la limousine è già ripartita sgommando, lasciando evidenti segni sull'asfalto e spruzzando Giovanni di vapori acidi e asfissianti. “E lei cosa sta cercando, non vede che è tutto transennato, che c'è divieto di accesso? Lasci lavorare tranquillamente la scientifica”, si sgola l'appuntato, squadrando Giovanni dalla testa ai piedi. “Appuntato, venga, abbiamo trovato il cerchio di centrocampo, a ottanta metri di profondità, vicino alla cabina del radiocronista”, sopraggiunge affannata ed eccitata una recluta dell'ultima ora. “Dunque oggi non si gioca?”, chiede Giovanni. “Ehm, ci sono scarse probabilità, ma tocca all'arbitro decidere”. “Maledetta nebbia”.
Rassegnato e assetato, Giovanni dà l'ultimo morso alla porchetta e torna verso casa, obliterando sul Jumbo fermo al capolinea di Axum, che poi decolla stancamente, destinazione Gratosoglio, ben sapendo di essere destinato ad impigliarsi fra gli stormi di piccioni curiosi, nelle strade del centro, o magari ad essere dirottato altrove, per lasciare la precedenza ai rinforzi dell'aeronautica militare, in questa giornata di strapaese e di emergenza, e sarà forse necessario organizzare un atterraggio di fortuna, presumibilmente dalle parti di Piazza Cinque Giornate, se esiste ancora, se non è stata trasferita in periferia o all'estero, comunque al sicuro, se già non vi hanno alzato le barricate.
“Chi si è bevuto il succo di frutta?”, è l'innocente e retorica domanda che Giovanni pone a se stesso, esplorando le profondità del freezer, dove l'allegra compagnia sta facendo baldoria, e il camémbert offre altre coppe di champagne alla mozzarella di bufala, che finalmente è riuscita a liberarsi dall'abbraccio mortale del pecorino ammuffito e trasudante, e mentre il Bauer al limone corteggia, con fascino teutonico, una tavoletta di Lindt mingherlina e fondente, che peraltro ha fatto girare la testa anche al sofisticato ed elegantissimo Emmenthal, il quale tuttavia, fra tutti, pare l'unico rimasto sobrio, e ciò dipende probabilmente dal fatto che mentre gli altri brindavano a champagne lui, dichiarandosi astemio, si scolava un intero succo di frutta, anzi quello che ne rimaneva, esattamente all'interno della bottiglia che ora giace vuota (“possibile?”, si interroga Giovanni) e di traverso a fianco del piattino burroso, dove prima c'erano due grappoli d'uva e, prima ancora, l'ultima salamella, e dove adesso invece c'è la Mazda che, fuggita una volta dalla periferia industriale di Chemnitz, non credeva di doversi un giorno sottrarre dall'aggressiva morsa di tre Superpila, fanatiche e sguaiate; le quali, all'interno della radiolina che Giovanni aveva dimenticato proprio nel freezer uscendo di casa, si stanno disperando per le notizie che arrivano da San Siro, dove il Milan e l'Inter avrebbero già sprecato numerosissime occasioni da rete, se la visibilità non fosse nulla, se l'arbitro non avesse chiamato le squadre al centro del campo, rispedendole negli spogliatoi e rinviando a chissà quando la disputa del match, dell'attesissimo derby d'andata, con sollievo dei tre unici spettatori presenti e paganti, annoiati e infreddoliti. “Maledetta nebbia, e maledetta domenica”, impreca Giovanni, chiudendo violentemente lo sportello del freezer.
Mans