di Valerio Magrelli
Tutti conoscono ormai la celebrata, e a ragione, "autobiografia" di Andre Agassi, intitolata Open e redatta da un premio Pulitzer quale J.R. Moehringer. Tuttavia, molto prima di questa opera-confessione, ero rimasto profondamente colpito da una semplice intervista a un altro grande del tennis. "Dopo quello che ho fatto della mia vita, avrei potuto tollerare tutto, ma non l'eventualità di arrivare secondo". Era questo il sunto di una dichiarazione che Bjorn Borg rilasciò qualche anno fa. Con queste parole, il tennista svedese annunciò il suo ritiro dopo essersi piazzato al posto d'onore nel massimo torneo mondiale, ovvero Wimbledon. Quello che ad altri sarebbe sembrato un successo, per lui fu la sconfitta, e una sconfitta definitiva. In quella confessione, infatti, l'atleta ammetteva che fino ad allora non aveva cercato la vittoria: l'aveva semplicemente pretesa.
"Dopo quello che ho fatto della mia vita", sembrava più o meno affermare, "dopo averla ridotta a un'infinita serie di palleggi, dopo aver impoverito la trama del mio tempo fino a farne una monotona tessitura di scambi, dopo aver trasformato il mio destino nel movimento di un telaio inesorabile, - dopo tutto questo, io non posso perdere". E abbandonandosi alla sua delusione, lui, il primo fra tutti, abbandonò d'improvviso il circuito agonistico.
Logicamente, dietro l'autodafé di questo atleta che si ribella alla sua catena di montaggio, sta il problema della specializzazione. Per affrontarlo, si dovrebbe ricorrere a parole come "divisione del lavoro", "alienazione", "merce", ma con un occhio a quella Società dello spettacolo di cui ha parlato, con spaventosa durezza, Guy Débord.
Borg non era un luddista, e non cercò di distruggere nessuna macchina. Si limitò semplicemente a uscire degli ingranaggi del sistema, rinunciando a farne parte. La sua fu insomma una sorta di resa deontologica, l'abbandono di un lavoro incapace di compensare i sacrifici richiesti. Ma se la vita degli atleti di oggi assomiglia a un piccolo inferno della ripetizione, se questi operai del nostro svago sembrano sempre più simili alle vittime sacrificali di certe società pre-colombiane, cosa accade a chi pratica uno sport per diletto? O meglio, quale sarà la forma e il senso di un simile diletto?
Ciò non implica certo l'anarchia; al contrario, ogni attività ludica, per essere tale, deve avere regole ferree. Si tratta però di norme particolari, che il giocatore accetta senza riserve, in quanto formano la struttura del suo piacere. Paradossalmente, il diletto sportivo nasce dalla libertà con cui il corpo si sottopone alla fatica. Ecco perché, con un facile bisticcio, potremmo definirlo "lo sfarzo dello sforzo", cioè un atteggiamento mentale ed emotivo che permette di tramutare il dispendio in guadagno, e l'energia profusa in piacere acquisito. Solo così lo sport resta fedele alla sua radice francese di "diporto", sinonimo di divertimento, evitando di trasformarsi in quella spaventosa "deportazione" subita dagli atleti professionisti.
Riceviamo dall'autore questa prosa (soggetta per l'occasione a "qualche necessario rimaneggiamento"), già pubblicata in Caffè nel 1998.