Ritratti
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Era alto 1,68 e pesava 67 chili. Aveva una testa come un campetto di paese, spelacchiata al centro, un tronco di plastilina, e due gambe di filo spinato. Chiara dimostrazione del fatto che nel calcio l'aspetto non fa l'idolo.
Giocava con il numero 10, numero che si trascina dietro il sospetto, in questo caso confermato, di avere poca voglia di faticare. Il suo piede era il destro, ma non fu mai capace di calciare con forza il pallone. Al massimo, lo spingeva. Colpire di testa, neppure, perché aveva quattro capelli e non era proprio il caso di metterli in pericolo. Ad allenarsi non è che ci andasse molto, e quando si decideva, arrivava tardi. Non abbiate fretta di giudicarlo: era un genio che usava la testa per pensare miracoli, il piede destro per realizzarli e il corpo per raccontare bugie agli avversari. Anche così, capisco che è difficile spiegare la sua grandezza a un europeo.
Era la sintesi di tutti i vizi e di tutte le qualità più caratteristiche del giocatore argentino; ha saputo condensare una filosofia popolare che privilegia la tecnica e la creatività mentre condanna il sacrificio. Una volta gli chiesero un'opinione su Johan Cruyff, e la risposta fu quasi una definizione: "Corre molto, però gioca bene". Gli parve sempre una contraddizione, oltre a una vera stravaganza, che qualcuno dotato si mettesse a sudare. Il Bocha non ne vide mai la necessità. Per quanto si sforzasse.
Ha sempre giocato per il gol, a patto che fosse un altro a prendersi la briga di segnarlo. In una partita amichevole che la nazionale argentina giocò Buenos Aires sotto la direzione tecnica di Cesar Luis Menotti, il nostro numero 10 si stancò di servire palle gol e i suoi compagni si stancarono di fallirle. Una volta rientrati negli spogliatoi, il Bocha si lamentò amaramente: "Di questo passo dovrò mettermi a segnare anch'io". E ciò avrebbe significato un tradimento, visto che Bochini buttava la palla dentro solo se non c'era altro rimedio.
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Jorge Valdano, Il sogno di Futbolandia, p. 44