Amici ritrovati

di Alberto Brambilla

Confesso: non sono più un bambino e, purtroppo, mi sto avvicinando ai cinquant’anni. Eppure non ho saputo del tutto controllare una certa emozione di fronte agli album di figurine qui esposti. Il sentimento che si prova è, innanzi tutto, quello di ritrovare dei vecchi compagni di gioco. Sì, quei rettangolini di carta, raffiguranti calciatori o ciclisti, sono stati per anni miei fedeli amici. Poche volte ho tentato di completare un album, ma non sono mai riuscito a portarlo a termine, così come ho trascurato la possibilità di avere dei premi raccogliendo ‘valide’ o ‘bisvalide’. Solo ricordo perfettamente il rituale del controllo, l’individuazione della lacuna, l’incollaggio, l’odore di mandorla della coccoina ... Ma non avevo la pazienza necessaria e neppure un forte senso di possesso, indispensabile per diventare collezionisti. E poi mi sembrava di rinchiudere in carcere quei giovanotti e quegli uomini duri come l’acciaio, che avrebbero voluto sollevare la pagina-prigione per fuggire alla ricerca d’un campo verde e di una sfera di cuoio.

Preferivo allora liberarli per sempre e tenerli con me, provvisoriamente in tasca e poi sempre fra le mani: un mazzetto multicolore tenuto insieme da un elastico giallo. Ho giocato con loro migliaia di partite ‘a figurine’ (nelle diverse specialità, da ‘lungo’, ossia a chi lanciava più lontano contro un muro, oppure a ‘stagnino’, che comportava di salire sopra un’altra figurina), riutilizzando dopo le lezioni il cortile ed i muri della scuola elementare Tommaseo, e poi quelli del Collegio Rotondi dove mi hanno ‘rinchiuso’ a dieci anni. Ma, tra una partita e l’altra, quanti dialoghi, quante confessioni con Kurt Hamrin, Gianni Rivera e Gigi Riva!

Non c’era nulla di meglio contro la solitudine, e poi c’era la voglia di diventare un campione come loro. L’ho capito più tardi: il calcio sognato e quello giocato nei campetti del Collegio e poi, durante le vacanze, delle periferie, era anche un tentativo di distinguermi, di distaccarmi, di ritrovarmi; di recuperare un’identità perduta o soffocata, come ho cercato di raccontare nel libro Viola come il sangue, a cui naturalmente rinvio. Incontrare dunque ora vecchie immagini della mia Fiorentina o della amatissima Pro Patria, significa sì tornare al passato, misurandone la distanza dall’oggi, ma anche provare la gioia inaspettata di ritrovare vecchi amici. E’ un’esperienza affettiva, in cui la malinconia si confonde con un sottile piacere. E’ il fascino misterioso delle figurine: non pezzi di carta, ma frammenti di memoria, di vita.
(2013)

Campi di calcio e scheggiature classiche

di Fernando Acitelli


Nessuno rifletteva sul fatto che quel campo di calcio sorgeva sotto un tratto dell'Acquedotto romano. Le auto che lì davanti sfilavano, avevano a bordo individui d'animo non lesionato e dunque votati esclusivamente al ragionamento spicciolo e che recava frutti immediati, pratici, e piccole vittorie condominiali. Chi, invece, in quel punto rallentava e poi accostava sul margine della strada, rimaneva incantato dinanzi allo spettacolo del reperto ancora in asse e all'esibizione d'un Metodo, d'un Sistema. Chi si fermava, subito era investito da un tepore interno che risultava benefico e senz'altro migliore d'ogni elisir di lunga vita. L'archeologia a vista e il Metodo più o meno rivisitato erano, in quel punto di Roma, veri accoppiamenti giudiziosi; e se sotto le arcate dell'Acquedotto s'avvistavano dei sottoarchi di puntello, costruiti in acciaio, tale chimica esterna non macchiava la remota costruzione, anzi, c'era da benedire quegli interventi per come sapevano mantenere "in vita" l'Acquedotto. Tutto si sarebbe accettato pur di continuare ben distesi nel sogno.

In campo il Metodo trionfava nella grossolanità di impiegati e artigiani e si poteva parlare di tale sistema di gioco perché, con il libero staccato, si osservava più protetta la difesa; un po' era come se s'avvistassero i due terzini fissi sulla lunetta: Monzeglio-Allemandi; oppure Foni-Rava con i mediani, invece, che si dedicavano con molto affetto alla vita delle due ali avversarie. Dunque poteva anche esistere un individuo del genere, vale a dire un tipo che, sfilando là davanti, fermasse la sua auto e componesse nella mente tutte queste immagini. La via Appia Nuova si snodava ad un centinaio di metri da quel campo e al semaforo, svoltando a destra, si procedeva verso l'Urbe, mentre a sinistra la direzione era per i Castelli romani. Dall'Appia Nuova, sullo sfondo, oltre il verde dell'Acqua Santa e del Quarto Miglio, s'ammirava l'Appia Antica, la regina viarum, con il basolato e poi resti di tombe e scheggiature e muschio e quindi le ville d'innominabili individui. Con tale location tutto si dilatava come sentimento ed il gioco del calcio prendeva ad avere ancor più significati.

Giocare là sotto, oppure là davanti non era la stessa cosa che esibirsi da funamboli all'Eur oppure a Montesacro. Vicino a Villa (dei) Gordiani - nella mitica Borgata Gordiani di "Accattone" - v'erano due campi di calcio, rispettivamente il "Ramoni" ed il "Savio" e anche lì si sarebbe avvertito l'odore dei secoli e l'accadimento in diretta del divenire/divenuto. Ma chi avrebbe pensato tanto? Al Parco della Caffarella il campo di calcio era stato intitolato a Giovanni Battista de Rossi il più famoso archeologo, epigrafista e studioso dell'archeologia cristiana del XIX secolo. Tale campo era stato allestito tra le ondulazioni della classicità, ovvero tra l'arcaica via Latina e l'Appia Antica. Esso sorgeva su una collinetta e in basso v'era un immenso appezzamento di gioiellerie se la terra conteneva monete romane, corniole, anelli, lucerne, lagrimatoi, ampolle. A lato della via Latina, quel terreno era già ricco di suo ma tale "magazzino dell'antichità" s'era ingrandito quando lì avevano gettato la terra proveniente da altri quartieri di Roma, da altre catacombe al tempo dello scavo della metropolitana. Altre viscere di Roma erano state lì ammassate e così il terreno ribolliva di tesori. Dopo la pioggia la terra soleva "sputare" simili gioielli e farli così riemergere alla luce. E v'era luccichio tra le oasi di trifoglio, tra i camping di viole, e così una moneta effigiata con Nerva o con Marco Aurelio tornava sotto il sole in attesa d'una mano amica che gli desse ospitalità e affetto.

Dunque, il campo di calcio con più antichità tutt'intorno risultava essere quest'ultimo, il "Giovanni Battista de Rossi", bene allestito verso la fine degli anni '60. In lontananza la Tomba di Cecilia Metella e l'Appia Antica. Un centravanti fanciullo, in procinto di finire al ginnasio, avrebbe tenuto a mente tutto questo e durante i suoi campionati giovanili, da esordiente, giovanissimo, allievo e juniores, avrebbe dovuto studiare bene il suo campo di calcio e poi quelli dove avrebbe giocato tutte le volte in campo esterno. In questo modo avrebbe composto una mappa della classicità e degli anfiteatri dell'Urbe e di fuori le Mura. A sentir dire che una domenica avrebbe giocato accanto all'ipogeo degli Ottavi, sulla via Trionfale, o allo Statuario, di fronte alla Villa dei Quintili, o ancora nei pressi del lago di Nemi, ovvero accanto alla Nave Tempio e alla Nave Palazzo di Caligola, be', si sarebbe sentito più fortemente addentro ad una II Legio Augusta, naturalmente del campionato "Allievi".
(2013)

L'enigma di Kaspar Müller

Gerd e sua moglie sul set di Mary Poppins
Gerd Müller porta con sé, ha sempre portato con sé da quando è apparso sui campi cari a Eupalla, un lato incognito, enigmatico, come una conoscenza di mondi interiori e di futuri anteriori che a noi sono preclusi. Dove, nella nostra ordinarietà, non siamo mai stati. La sera dell'17 luglio 2011 Gerd uscì dall'albergo di Trento dove il Bayern era in ritiro per la preparazione estiva e scomparve apparentemente nel nulla. Solo dopo molte ore fu rintracciato, dicono le cronache pedestri, in "stato confusionale". Non credo sia vero: lo è solo secondo la ragione che si vuole “scientifica”, ma non lo è secondo i suoi percorsi.

Ci viene in aiuto la narrazione visionaria di uno dei grandi registi tedeschi suoi coetanei, Werner Herzog, che ha cominciato a lasciare i suoi segni indimenticabili nell'immaginario collettivo nei medesimi anni in cui Gerd ha cominciato a lasciare i propri nell'immaginario calcistico. Werner è stato, ed è, un impasto di personalità, di talento e di curiosità paragonabili a quelli di un Cesar Menotti o di un Günter Netzer, per restare ad alcuni grandi artisti coevi. Werner è un esploratore di mondi estremi: si è inoltrato nel regno dell’oscurità, ha parlato il linguaggio dei freaks, ci ha mostrato le scimmie mentre fumano e meditano.

Kaspar Müller
Non mi meraviglia pertanto che abbia esplorato per primo anche l'enigma di Kaspar Müller in un film struggente dello stesso anno in cui Gerd vinse la sua prima Coppa dei campioni e il Weltmeisterschaft (Jeder fur sich Gott gegen, 1974 [vedi]). Se proviamo a rileggerne alcuni “riflessi” l'evidenza è per certi rispetti sconvolgente. In un intenso fraseggio col suo mentore, nei cui tratti non avrei dubbi di ravvisare la paziente maieutica di Helmut Schön, Gerd esprime la piena consapevolezza del suo destino: «Sì, ho proprio l'impressione che la mia apparizione qui, su questa terra, sia stata una caduta pesante». Lo è stata infatti, come pochissime altre: i 41 gol nella sua prima stagione con il Bayern nel 1964-1965, la quaterna mitologica con cui si rivelò Der Bomber der Nation il 27 aprile 1967, le 235 reti in Bundesliga, le 65 nelle coppe internazionali, un palmarès sontuoso di titoli e trofei.

Negli anni felici, quando poteva finalmente
travestirsi e giocare con gli amici
Eppure l'uomo è fragile, appare indifeso. Non sappiamo da dove sia venuto, è stato trovato un giorno in un campo, con un pallone in mano e le scarpe bullonate ai piedi. È molto probabile che abbia vissuto un passato indicibile e infelice. Quando si ritirò cadde infatti in depressione e si rifugiò nell'alcol, per poi trovare asilo nella casa dei suoi amici solo grazie al fraterno interessamento di Kaiser Franz.

Kaspar Müller è un visionario: seduto in panchina ha rivelato a Schön di essersi sognato: «Oggi mi sono sognato. Sì, mi sono sognato del Caucaso. Ecco quello che mi sono sognato». E Werner ci aiuta a vedere con lui il Caucaso in uno dei momenti più intimi e commoventi della sua biografia [vedi]. Amo credere che sia probabile che lì Gerd sia tornato anche nella sua errabonda notte trentina.

Re Kaspar
L'uomo è piccolo e mite, tenero e irsuto. Soprattutto, sensibilissimo. Lo vediamo piangere quando ha scoperto che il suo nome iscritto sull'erba crescione è stato calpestato, e lo sentiamo ribadire caparbio che tornerà a scriverlo di nuovo nei campi: «Ieri, ritornando dal giro in barca, ho visto che qualcuno era entrato nel giardino ed ha calpestato completamente il mio nome. Allora io ho pianto. Per molto tempo. Però io voglio di nuovo seminare il mio nome ...» [vedi].

L’eccentricità calcistica di Kaspar appare evidente nella seduta tattica con il professore di logica kantiana sul tavolo di cucina: alla gabbia degli schemi egli contrappone l'estro erratico della Pulce, in uno dei suoi gol più belli e poetici [vedi].

Ma rimane l'enigma sulla sua reale identità, troppo eccezionale apparendoci la sua epifania pedatoria. E' indubbio che Kaspar Müller sia entrato nei panni di Bruno S(chleinstein), di cui sempre Herzog ha narrato la straordinaria ballata proprio nell'anno in cui Gerd decise di trasferirsi in America nell'illusione di potersi rifare una nuova vita. Lo vediamo infatti, nella prima scena del film, uscire dalla prigione del suo immediato passato, e poi affrontare il viaggio non risolutivo negli States [vedi].

In un fotogramma di Que viva Mexico!
di Sergej Mikhajlovič Ejzenštejn
E che dire dello stile tutto suo, sgraziato ma efficacissimo, con cui Müller ha saputo suonare la sua melodia calcistica? L'esterno è un cortile tipicamente berlinese e nella curiosità stupita dei bambini che lo sbirciano  e lo ascoltano suonare [vedi] io rintraccio lo stesso sentimento che mi avvinse nell'osservarlo sgambettare in maglia bianca e in pantaloncini neri, e implacabilmente marcare, nell'estate messicana di tanti anni fa.

In un’altra vita, in un altro mondo.

Azor


Nel giorno del 68° compleanno di Bruno Gerd Kaspar Hauser Müller Stroszek

La solitudine dell'ala destra


Fernando Acitelli
La solitudine dell'ala destra. Storia poetica del calcio mondiale

1998 | Einaudi
Vedi anche Eupallog: Il canzoniere del Novecento

Una vocazione precoce

Una locomotiva simpatica e qualche vagone carico di legname, ciù ciù ciù. Ma qui non è Rio Bo, e l’ombra oscura della torre dello Spielberg ce lo ricorda. E il ron ron di fondo della raffineria, gattona nera accovacciata sembra confermare l’impossibilità di oltrepassare la frontiera. Neppure con lo sguardo.

Ora d’aria, finalmente. Non c’è niente di meglio che scendere – in fila per due e ricordatevi che non si può parlare! – ai prati nella valle. Quattro campi da calcio. Porte in ferro, color ruggine. Campi da sette o da nove, ma si gioca anche in undici contro undici, e si può arrivare ben oltre.  Qui si può parlare e correre e giocare. A pallone, naturalmente.

Sfide accese in cui si mette in palio il proprio orgoglio, e non solo. Qui in Lombardia i ragazzi nati a metà degli anni cinquanta tifano solo per gli squadroni, Milan Inter Juventus. Poco altro, e non conta. In questa valle di lacrime, giocare è vivere. Anche se a volte, d’inverno, scende una nebbia fradicia e il freddo ti costringe a subire stilettate a cominciare dalle spalle e poi giù, correndo sul filone della schiena. Maglietta di cotone. Pantaloncini corti d’ordinanza. Guanti verboten. Sebbene nella massima estensione, i calzettoni non arrivano al ginocchio. Restano venti-trenta centimetri scoperti. Se non corri muori assiderato. 

Qui da noi contano solo gli squadroni. Quando parlo di Pro Patria, nei primi anni sessanta, mi guardano come fossi un marziano. Ma io tengo duro, è quella la mia squadra, la squadra di mio padre e dei miei avi. L’ho vista una volta sola prima d’essere rinchiuso a dieci anni. Pro Patria Napoli 2-2, doppietta di un certo Canè, non so se mi spiego (fu il primo impatto con un vero ‘negretto’, ma questa è un’altra storia). Capivo poco di football, ma quella maglia a strisce orizzontali non l’ho mai dimenticata. Unica.

Duelli all'ultimo sangue. È l’Inter la squadra da battere, in Italia e nel mondo. Quasi tutti i ragazzi qui stravedono per i nerazzurri. È l’unica libertà concessaci, di scegliere la squadra che ci terrà un po’ di compagnia. Perché i giorni e le notti senza i genitori sono difficili, lo sai?

Sotto la statua del Curato d’Ars si sussurrano giaculatorie oscene. E all'ombra degli alberi o negli angoli bui dei cessi si scambiano le prime figurine. Quelle dell’Inter sono le più ricercate. Sarti-Burgnich-Facchetti pregate per noi. Il beato Luisito ci protegga e l’Angelo Domingo sia sempre a noi vicino. 

All'arma bianca sono i duelli, soprattutto quelli del sabato, quando al pomeriggio non c’è scuola. Allora la valle non è più solo di lacrime e si anima di energie e pulsioni a stento trattenute. Da una parte chi tifa per l’Inter, dall'altra una squadra mista Milan-Juventus, per una volta quasi fratelli. Ma senza esagerare.

Non sono male io, anzi. E chi mi ha visto giocare lo può testimoniare. D'altronde non sono molte le possibilità per sopravvivere all'aridità dei sentimenti. Ala o mezzala, meglio a destra, ma se occorre gioco a sinistra. Inseguire un pallone di gomma piena e dura è la sospensione del dolore, l’anestesia più dolce che abbia mai provato.

Ma tradire no, non è possibile. Inter, Juventus e Milan per me pari sono. Mi fanno schifo, anzi non esistono proprio. Io ho in testa la Pro Patria e delle figu Panini ho nel mio armadietto solo quella di Enrico Muzzio. È l’unico ex della Pro Patria nella collezione 1966-67, ed ora gioca nella Spal.  
   
Io sono nato a Busto Arsizio undici anni fa, non posso tradire. Neppure Sant'Antonio dalla barba bianca me lo può chiedere, neppure padre Ignazio. Così mi autoescludo. E non c’è niente di più triste di pomeriggi come questi. Passati in piedi, freddo fuori e gelo dentro. Si scannano dietro un pallone i miei fratelli, ma io sono diverso. Ora me ne accorgo.

Mi presto a fare il raccattapalle, per muovermi un po’ e stordirmi. Ma quando la sfera vola fuori campo, dopo i primi arbusti e il rivo strozzato e maleodorante dell’Olonella… Allora ho come uno stordimento, vacillo, annaspo. Fingo di non ritrovare il pallone, ma l’ho già in mano e faccio di nascosto due o tre palleggi. Dietro i rovi.


Mi chiamano. Pretendono di giocare gli stronzi, i fortunati. E anch'io lo potrei, se solo dichiarassi la mia fede, in fondo sarebbe la mia seconda squadra. Non tradirei nessuno. No, non posso. Avvinghiarmi con le unghie a quel vecchio albero, alla Pro Patria intendo, è un modo per crescere di dentro, è un modo per non morire senza identità.

Ma ora non posso più sopportare la visione di quelle maglie variopinte che si mescolano e s’azzuffano e si allontanano senza una logica apparente. Non c’è niente di più triste di pomeriggi come questi, passati a contemplare l’altrui felicità.

Woow woow ciù fa il Gibuti, woow woow, woow woow ciù ciù ciù. Per un attimo l’incontro si interrompe e io posso ritornare come gli altri, partecipe del medesimo destino. Ciao Africa, addio. Si allontana il treno e tutto passa, tutto se ne va. Anche il dolore passerà. Come i treni a vapore, come i treni a vapore. Ma questo l’avrei capito anni dopo. Woow woow, woow woow ciù ciù ciù.

Si avvia probabilmente ad una nuova vittoria, l’Internazionale di Milano. Che è tallonata da una sorprendente Juventus. Sarà quel che sarà. A me poco o nulla importa e lo confesso alla figura austera di Dante Alighieri, dipinta alle pareti del cortile centrale del Collegio, insieme agli altri grandi. Sono ventidue, come dire due squadre di calcio. Sono visioni, allucinazioni mentali di questa tarda primavera che finalmente ha invaso il mondo e scaldato la prigione.

Mese di maggio, mese delle rose. E della mistica e vera Rosa, mese della Madonna, come ci ripete ossessivamente padre Ignazio. Per noi mese in cui si decide il campionato, mese della resa dei conti. La spavalda e anzi superba Inter è chiamata ad un’altra finale nella Coppa dei Campioni. Sarà Lisbona la città designata, il Celtic l’avversario.

Senza farmi vedere dai compagni, guardo in classe sulla carta geografica dov'è Lisbona, un punto nero sull'arancio Portogallo. E devo salire sulla sedia per raggiungere la verde Scozia, so già che il Celtic è la squadra di Glasgow. 

Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio, dei primi fanti il 24 maggio. Ma nella mia storia personale è il 25 maggio il giorno fatale, anche se allora non lo potevo sapere. Lisbona, 25 maggio 1967, finale Inter-Celtic. L’insolita generosità di padre Ignazio, sollecitata da pressioni nerazzurre di varia provenienza ma di sufficiente intensità, ci concesse di vedere quella sera alla TV lo scontro tanto atteso.

Ma non da me. Che fui obbligato – tacere bisognava e andare avanti –  a restare coi compagni in refettorio per assistere all'incontro  L’occhio semidivino si ergeva in un angolo, scatolone di vetro e legno sorretto da lunghe leve metalliche. Io attendevo l’evento con curiosità e fastidio, anche se era comunque un diversivo rispetto all'ora di studio obbligatorio, e all'oretta passata finalmente nel cortile, ad ascoltare il ronfare lontano della gatta-raffineria, pensando ai fatti miei.Dopo ripetuto scatarrare seguito all'accensione (e alla non corretta sintonia), lo scatolone incominciò a vomitare immagini, anzi ectoplasmi luminescenti. Infine padre Ignazio con l’ausilio forse di santa Maria Goretti, o comunque di un influente spirito, riuscì a catturare le prime immagini. Mancavano pochi minuti al collegamento.

Sulle sedie di legno e metallo aspettavamo in sofferto silenzio il calcio d’inizio. Era comunque quello un giorno speciale. Una piacevole eccezione rispetto ad una vita regolata dagli altri. Tornavamo per un momento padroni del nostro tempo, o almeno così ci sembrava. Infine ecco il collegamento, accompagnato da un brusio di tensione e di ammirazione per lo scatolone magico che ci trasferiva a Lisbona.

Mentre scorrevano le prime immagini in bianco nero, non molto nitide, a causa della lontananza dell’evento, mi parve di intravedere un lungo striscione con la scritta BUSTO ARSIZIO, collocato proprio sopra le panchine degli allenatori. Ebbi come un mancamento. Dietro a quel nome c’era un grumo d’affetti, una storia, le radici, la lontananza… Ma fu solo un lampo e forse fu frutto della mia eccitazione o della stanchezza.

A quel punto subentrò la voce di Nicolò Carosio, l’aedo per eccellenza, l’Omero prediletto. Incominciava ad inquadrare la partita, dando le formazioni delle squadre. Ad un tratto apparvero alcuni giocatori, l’Inter con la solita maglia nerazzurra, gli avversari… con una maglia a me stranamente familiare. In quel preciso momento irruppe la voce del telecronista che descriveva la maglia del Celtic, definendola “a strisce orizzontali… tipo Pro Patria”. 

“Tipo Pro Patria!”, “Tipo Pro Patria!” ripetevo come una giaculatoria-scioglilingua. Qualche compagno mi guardò all'improvviso  io dovevo apparire loro come un San Luigi di luce incoronato. Mi mordevo le labbra stringendo i pugni sotto il lungo tavolo di formica verdolina. Allora ebbi un’illuminazione e poi una certezza: mai e poi mai avrebbe vinto l’Inter contro la mia Pro Patria miracolosamente trasferita – non era accaduto qualcosa di simile a Loreto ? – in terra scozzese e poi lusitana. Mai.

Alb

Jorge Campos


Jorge Campos

Adattato al calcio
in un pomeriggio,
dopo colorita milizia
circense, nei capannoni
a Toluca, già zeppi di nani,
picari e buffoni ...

Lesta mano di Velázquez
in interni reali.

Nelle ariose uscite
è Quevedo che parla.

La domenica del derby

“Chi si è mangiato la salamella?”, è la domanda retorica che Giovanni formula a se stesso, esplorando scientifica­mente gli spazi siderali del freezer, cercando e non trovando il cartoccio bianco e umido, tastando pacchetti e confezioni sperando nel morbido approccio o di abbrancare la corda che unisce le estremità della salamella. In effetti il freezer è ben frequentato, assomiglia a un club esclusivo alto-bor­ghese, bot­tiglie di champagne dialogano in francese con il camémbert, tavo­lette di cioccolato Lindt e spezzoni di raffinato Emmenthal si scambiano noti­zie su come aprire conti cifrati nelle banche svizzere, solo un Bauer al limone guarda di traverso la Mazda da cinque volts (“cosa ci fa qui?”) che a sua volta ha i modi ar­roganti e orgogliosi di un ex-dissidente emigrato dall'inferno di Chemnitz, e del resto non è detto che si senta a proprio agio in quella compagnia, tanto più che al suo fianco, vicino al polo negativo, un etto di pecorino trasuda beato come un italiano me­dio in va­canza, e ammorba i saporosi rigurgiti di una moz­zarella di bufala, adagiata sul piattino burroso dove prima c'erano due grappoli d'uva e prima ancora (“possibile?”, si interroga Giovanni) quel che ri­maneva dell'ultima salamella.

“E allora cosa mi porto allo stadio?”, piagnucola, “cosa metto nel pa­nino?”. “Io”, si propone il camémbert, “no io”, lo spinge via la mozza­rella di bufala, “porta me, ti prego, non sono mai stata a San Siro”, spunta fra i due una tavo­letta di Lindt. “C'è il derby, vero?, unoicsdue, pronostico facile”, si candida discretamente e per ultimo il pecorino rammollito. Dopo lungo meditare, palpare, annusare ed as­saggiare, Gio­vanni agguanta la Mazda, che non oppone re­sistenza e si lascia col­locare dolcemente nel bagagliaio della radiosveglia, dove tuttavia non credeva di trovarsi circon­data da tre Superpila vocianti e conformiste (“Milan, Milan, Inter, Inter!”, cantano già, all'unisono e a squarciagola), e “dunque mi ha incastrato!”, è il pensiero acido e rancoroso che rivolge a Gio­vanni, un attimo prima di veder calare sopra di sé il si­pario e di sentirsi sfiorare il polo positivo da un'appiccicosa linguetta di scotch.

“Comprerò pane e porchetta fuori dallo stadio”. Giovanni non ricor­da già più dove ha dimenticato la microscopica radiosveglia, ma non ha tempo di cercarla, si infila il cap­potto, si avvolge la sciarpa al collo, spolvera ben bene e riarrotola la bandiera e poi parte all'avventura, av­vertendo già i primi, tipici sintomi di questa giornata speciale, le gambe che tremano, le vertigini, la fame nervosa, l'ansia di arrivare prima degli altri, e trovare un biglietto e un como­do posto di gradinata, in as­se perfetto con la linea di gesso tracciata sul campo, a metà campo.

E' una giornata speciale, per combinazione la domenica del derby quest'anno cade proprio nel giorno di Sant'Am­brogio, purtroppo però la nebbia è fittissima, il freddo gla­ciale, “e mai una volta che ci sia il so­le, il sette di dicembre”, si rammarica Giovanni, mentre cerca di anne­gare l'angoscia nel Campari, in un bar di via Torino all'altezza del tempio civico, quando a occhio e croce non saranno ancora le nove e per strada circola solo qualche tram (vuoto), e mentre il fiorista di San Satiro beve un caffè in piedi al suo fianco e si lamenta del freddo e con­trolla sul Giorno le previsioni per oggi. “Solo cinque metri di visibilità fuori e qualcuno di più in città”, ha il tempo di proferire prima che una goccia di Lavazza gli si incagli tra la faringe e i polmoni, costringen­dolo a tossire e a bestemmiare. “Infatti. Avete visto il duomo?”, si intromette il barman, “la madon­nina: sparita, volatilizzata. Cioè, non si capisce se è sparita o se la neb­bia è talmente fitta che non si vede. Sia come sia”. Giovanni neanche lo ascolta, “se continua così è difficile che si giochi oggi pomeriggio”, dice rivolto al fiorista, con gli occhi di uno cui piacerebbe essere tranquillizzato. Quell'altro, ormai sul punto di soffocare, si limita a mostra­re il pugno, di­varicando faticosamente l'indice e il medio in segno di vittoria, e Giovanni non può fare a meno di toc­carsi qua e là e di por­tare subito dopo la mano allo stomaco, dove una ter­ribile fitta nervosa lo ripiomba nella catalessi fanatica e pessimista, nel terrore, e in ultima analisi sono proprio questi i sintomi più evidenti che oggi, proprio oggi, si gioca l'attesissimo derby del girone di andata.

Fino a piazza Duomo sono quattro passi, una sola fermata di dician­nove, Giovanni li percorre a piedi, in via Meravigli prenderà il venti­quattro, destinazione Axum (piazzale dello Sport), certamente nota che l'atmosfera si sta vivacizzando, c'è qualcosa di elettrico nell'aria, qua e là si formano capan­nelli, la gente discute, “stasera oltretutto c'è anche la prima della Scala”, è davvero una giornata speciale. Noterebbe an­che, se avesse un briciolo di sensibilità, che in piazza Duomo sta acca­dendo qualcosa di strano, pare che mezza città si sia svegliata all'alba per darsi appuntamento lì. “Ci saranno i bagarini che vendono gli ultimi ta­gliandi”, pensa Giovanni, deve verificare, anche lui purtroppo è tuttora senza biglietto, per quanto non disperi, anzi. “Quanto per un popolare?”, domanda al primo che capita.“Cosa?”, gli risponde quello, in effetti c'è molto rumore, bi­sogna gri­dare. “Un popolare, dicevo. Quanto chiedono?”, l'informazione è fonda­mentale, “sa, più di cinquecentomila non sono di­sposto a spendere”. L'uomo è del tutto disinteressato alla questione, come tutti gli altri che affollano la piazza guarda mesto verso il cielo, anzi verso le guglie del Duomo, anzi per essere precisi verso la guglia più alta del Duomo, dove si nota la mancan­za di qual­cosa, anzi di qualcuno, per la precisio­ne della madonnina, faro della necropoli, stella della cattedrale, pennac­chio lucente nei cieli grigi e fatiscenti della Padania glaciale e nebbiosa. Gio­vanni si avvicina a un gruppo di anziani, che argomentano logicamente. “E' inutile, non c'è bisogno del cannocchiale, la nebbia si è alzata di un pelo, si vede benissimo che non c'è”, sentenzia uno. “Com'è possibile, ieri sera c'era ancora, l'ho vista con i miei occhi, la piccinina”, interviene un secondo, in lacrime. “Miracolo, miracolo”, catechizza un terzo, esasperato, e nega di aver udito nel cuore della notte il suono della sirena di un antifurto pro­ve­nire esattamente da lassù, dalla cima del Duomo. “Scusate, a nessuno avanza un popolare? Offro quattrocentocinquantamila”, si intromette Giovanni.  


“Su, circolare, circolare”, interviene finalmente un vigile, che spinto­na Giovanni verso l'imbocco della galleria: “se a lei interessano i bi­glietti di loggione per stasera vada a met­tersi in fila come tutti gli altri, davanti al teatro, anche se credo che sia troppo tardi, ormai”. Giovanni si trova suo malgrado incanalato nella fiumana spontanea che sta dilagando chiassosa e perplessa in piazza della Scala. “Ehi, non spinga, per favore, le cedo il mio po­sto in fila, non sono un meloma­ne”, urla nell'orecchio di quello che lo segue, “lei sembra morso dalla taran­tola, abbia fede, troverà posto senz'altro”. Invano cerca di divin­colarsi e tornare indietro, adesso ci vorrà mezz'ora prima che passi un altro ventiquattro, ne ha appena visto uno con la coda dell'occhio, che si al­lontanava verso piazza Cordusio. Rat­tristato, bada perlomeno a non farsi travolgere, e si lascia rimorchiare dol­cemente fino in piazza della Scala, e certa­mente nota, anche se non possiede grande spirito di osser­vazione, che da tutte le strade adiacenti sbucano uomini e donne, e co­me api impazzite si vanno ad ammassare intorno al favo, l'aiuola siste­mata nel centro della piazza, che cir­conda, o per meglio dire cir­condava la statua di Alessandro Manzoni. “Almeno il piedistallo, c'è ancora?”, si informa uno che domanda di rimanere anonimo. “Quelli davanti dicono vi siano tracce di una collutta­zione, l'Ales­sandro è robusto, non si sarà lasciato portar via così fa­cilmente”, echeggia voci infondate un improvvisato interlocu­tore. “Ma no, non l'hanno rapito, è lui che se n'è andato, quan­do ci sono gli spettacoli la sera non riesce a dormire”, lo sbu­giarda un terzo che al posto del Manzoni si sarebbe comportato nello stesso modo. Un quarto zittisce tutti quanti: “ha lasciato un biglietto, se non altro dice che tornerà, forse questa sera stessa, al più tardi domani, dice an­che di avvisare i parenti”. Giovanni approfitta della situazione per salire sul piedistallo vacante, “cinquecentomilacinquecento per un popola­re, ultima offerta”, arringa la folla sottostante, e nel frat­tempo, in mezzo alla gente, ha fatto capo­lino il borgoma­stro (“almeno lui c'è ancora”, sussurra un neonato), ac­com­pagnato dalla corte dei miracoli, e insieme alle autorità (che nulla confermano e nulla smentiscono circa la “presunta” scomparsa del Manzoni) sopraggiungono anche le prime avanguardie della polizia a cavallo. Un poliziotto a piedi in­tima a Giovanni di scendere dal basa­mento, con modi pe­rentori e sbrigativi, anzi ultimativi: “o lei va a ba­garinare altrove, o mi segue in questura. Anzi, senz'altro mi segue in questura”, e lo spintona dentro il cellulare. “No guardi, è un tragico errore, mi lasci pure in via Me­ravi­gli”, si ri­bella Giovanni, che per fortuna riesce a chiarire l'equivoco e a farsi ac­compagnare fin sulla piattaforma po­ste­riore, fino alla macchinetta obliteratrice del ventiquattro fermo in via Meravigli, ultimo di una lunga carovana di tram in sosta forzata, impossibilitati a disimpicciarsi dall'abbraccio fatale delle nebbie e delle folle incredule, scese per strada a farsi domande e darsi risposte, in molti casi rispondendo con altre domande.


Bisognerebbe esserci passati, per capire cosa significhi al­zarsi all'alba la domenica del derby, quando guarda caso co­in­cide col giorno di Sant'Ambrogio, che per tradizione è anche il giorno che inaugura la stagione della Scala, e sapere che non ci sarà modo di scongiurare e tanto meno di placare l'emorragia di ansie e di pessimismi che già ri­gonfiano la bocca dello sto­maco; e soprattutto cosa significhi ritrovarsi intorno alle undici sul tram (destinazione Axum ben in vi­sta, grazie a un cartello sistemato davanti, appeso al vetro, di fianco al conducente) fermo, incolonnato, imprigionato nelle strade del centro, dove impaz­zano una quantità imprecisata di fenomeni indecifrabili, dove le voci si rincorro­no, si accavallano e si afflosciano da sole, mentre svolazzano le civette della polizia, i blindati dei carabinieri, la fanteria a cavallo dell'esercito della salvezza, le prime edizioni straor­dinarie dei giornali, quando il city-mana­ger ha aperto uffi­cialmente la caccia alla volpe, la caccia alle streghe, la caccia ai latitanti, la caccia al tesoro, sì, anche la caccia al tesoro, in fondo si tratta pur sempre di una sagra pae­sana. “Quanta gente senza biglietto”, pensa Giovanni osservando preoccu­pa­to e malinconico il corteo che fende impietoso via Mera­vigli, raddop­piando in corso Magenta e decuplicando non appena si materializzano le prime bancarelle che annuncia­no la prossimità della basilica, che è poi esattamente quella dedicata al santo di cui oggi si festeggia l'onoma­stico. “In questi casi sarebbe opportuno che l'ATM program­masse servizi alternativi, percorsi meno ingolfati”, esplode Giovanni in faccia al conducente, appena scorge un vendi­tore ambulante di torroni e zucchero filato, all'incrocio con via Nirone.

“Meglio andare a piedi, faccio prima”, si congeda alfine e, ancora in precario equilibrio sull'ultimo scalino della porta centrale del Jumbo in avaria, viene inevitabilmente risuc­chiato dal turbinio caramelloso e colorato dei bambini che, tenendo per mano i padri, e strattonando e spingendo e spendendo, saltellano di qua e di là, da un carretto all'al­tro, fra un mangia­fuoco e una pesca di beneficenza, fra un arro­tino e un antiquario. “Biglietti, bigliettiii !”, Giovanni si precipita verso il chio­sco artigia­na­le da cui proviene l'urlo, una garitta di plastica e ve­tro, e fa capolino allo sportello. “Un popolare, grazie, quanto fa?”, chiede ansioso, ha già il portafo­glio in mano, ha già contato i soldi e calcolato il re­sto. “Solo lotteria di capodanno, biglietti vincenti, vengano lorsi­gnori”, lo disinganna il cieco, ignorandolo. Ma ecco che, improvvisi e simultanei, i due campanili della basilica chiamano il popolo a raccolta. “Inizia la messa, non se la perda che oggi è in rito ambro­siano”, è il consiglio disinteressato che un passante, inosser­vato dai più nonostante l'aureola e il costume da arcivesco­vo, non manca di rivolgere a Gio­vanni, pur nell'urgere tra­volgente della falcata, nell'empito della fuga. “I campanari di una volta erano più delicati”, fruga nella propria me­moria una donna che oltrepassa il mercimonio sfrecciando nella dire­zione opposta a quella del passante ma­scherato, frenando a pochi passi dalla pusterla, dove Gio­vanni ora nota un gesticolare di monaci e di ca­nonici, anzi più che altro un litigioso confabulare. “Eccoli, gli ultras, si­curamente stanno discutendo sulle ultime scorte di ta­gliandi”, si illumi­na, avvicinandosi al crocchio. “E' andato di qua”, suggerisce l'arciprete, “no, di là”, assi­cura il sacre­stano, “dividiamoci”, li mette d'accordo un mo­naco riformato, e tutti cominciano a correre indiavolati, mentre le campane propagano l'al­larme e ognuno tutt'in­torno ha ormai saputo che Sant'Ambrogio, di­velto il pre­zioso e argenteo scri­gno nel quale era rinchiuso da sedici se­coli, è scappato con l'oro dei seguaci, ingrato e imperscru­tabile. “Proprio il giorno della sua festa, vecchio birichino”, piange lacrime dolorose e inconsolabili di madre tradita, sulla spalla di Giovanni, la donna di prima, nello sfondo attonito della basi­lica annerita di smog e gocciolante di muffa e di brumosa fo­schia caliginosa. 

A mezzogiorno Giovanni è in solitario cammino verso la sua meta periferica, sul lungo viale che da piazzale Lotto conduce fino allo sta­dio, finalmente un angolo di metropoli silenzioso, deserto, non con­taminato dai clamori del centro, si vedono macchine posteggiate qua e là, ma poche, sono quelle dei resi­denti, solo il muro di cinta dell'ippo­dromo ha qualche fremito nervoso, più che altro è bello ascoltare il suono ovattato dei passi sull'interminabile tappeto di foglie secche, e Giovanni pregusta un pomeriggio di gloria, “magari a quest'ora è possi­bile trovare un popolare a prezzo di saldo”, ed è vero, non c'è in giro anima viva, l'atmosfera è surreale, del resto anche la nebbia contribui­sce, ma è “la quiete che precede la tempesta”, e Giovanni comincia a ri­passare i cori della curva, a sventolare la bandiera.

“Ehi, lei, mi dica ...”, l'attenzione di Giovanni è d'un tratto richiama­ta dalla voce di un uomo, sporgente dalla sommità di un palazzo che si intravede appena ai margini del percorso: “... mi dica, lei viene dal cen­tro, non è così?”. “Sì, vengo dal centro”, conferma Giovanni. “Senta, è vero che hanno sospeso la prima del Barbiere di Siviglia, questa sera, sa, avevo un biglietto di platea, in se­conda fila, alla radio hanno intervistato il capo della polizia, ha detto che siamo in emer­genza totale, che c'è il rischio di inci­denti ...”. “Sì d'accordo, c'è la nebbia, ma oggi si gioca, dia retta a me, è sempre andata così”, risponde Giovanni con l'aria di uno che la sa lunga, e ag­giunge “pensi un po', è il mio nove­cente­simo derby d'andata, è dal primo dopoguerra che non ne perdo uno”, ma non fa in tempo a smet­tere di vantarsi che quell'altro, con un tonfo sordo, è rovinato al suolo a pochi metri da lui, e vi giace esanime, incosciente, proba­bilmente in coma o in prognosi riservata. “Comunque, vinca il migliore, e non lo dico per scara­man­zia”, si congeda Giovanni, preoccupato di raggiungere un fur­goncino fumante e benaugurante, che si staglia come un mi­raggio in quel pallido e spesso orizzonte. “Pane e por­chetta”, ordina, paga e ringrazia.

E' nel piazzale antistante la voragine dove, fino a qual­che ora fa, si er­geva imponente e minaccioso lo stadio di San Siro, che Giovanni viene quasi investito da una limousine lunga quindici metri, recante a bordo, oltre all'autista, un uomo dall'aria distinta, ottocentesca, e una donna avvolta in un lungo scialle dorato, espressione molto devota. “Scusi signore”, si informa l'autista, “la strada per San Si­ro?”. “Come sarebbe a dire la strada”, si abbassa Giovanni per meglio vede­re in faccia il suo interlocutore, “siamo a San Siro, non vede?”, e indica l'informe spazio occupato dal vuoto che galleggia al di sopra del gigan­tesco precipizio. “Io non vedo niente, Ambrogio”, interviene severo l'uomo che freme sul sedile posteriore. “Ma Alessandro, non vedi niente perché c'è troppa neb­bia, e poi non hai gli occhiali, te li dimentichi sempre”, la donna al suo fianco prende immediatamente le difese dell'autista. “Tu Mary stai zitta, che nemmeno conosci il significato di certe paro­le, tipo derby, football, penalty, e inoltre non sei mai venuta allo stadio, e poi se c'è qualcuno che ha sempre la testa fra le nuvole sei proprio tu”, tronca definitivamente il discorso l'uomo, con piglio autoritario. 

“Scusi, non ci siamo già visti un paio d'ore fa, davanti al cieco che vendeva biglietti della lotteria?”, fa Giovanni ri­volto all'autista. “Può darsi, è li che ho acquistato gli ultimi tre popolari, a quindicimi­la, ma adesso temo che siano tagliandi contraf­fatti”. “Ambrogio, muoviamoci che è tardi, non troviamo più un buco per posteggiare”, si innervosisce quello dietro, che sem­bra il capo, “e tu Mary copriti le gambe, che ti vedono tutti”. Si immischia un carabiniere (“documenti, per favore”), bal­zato fuori da una gazzella in corsa, ma non fa in tempo a rial­zarsi che la limousine è già ripartita sgommando, la­sciando evidenti segni sull'asfalto e spruz­zando Giovanni di vapori acidi e asfissianti. “E lei cosa sta cercando, non vede che è tutto transennato, che c'è di­vieto di accesso? Lasci lavorare tranquillamente la scientifica”, si sgola l'appuntato, squadrando Giovanni dalla testa ai piedi. “Appuntato, venga, abbiamo trovato il cerchio di centro­campo, a ot­tanta metri di profondità, vicino alla cabina del ra­diocronista”, soprag­giunge affannata ed eccitata una re­cluta dell'ultima ora. “Dunque oggi non si gioca?”, chiede Giovanni. “Ehm, ci sono scarse probabilità, ma tocca all'arbitro deci­dere”. “Maledetta nebbia”.

Rassegnato e assetato, Giovanni dà l'ultimo morso alla por­chetta e torna verso casa, obliterando sul Jumbo fermo al ca­polinea di Axum, che poi decolla stancamente, destina­zione Gratosoglio, ben sapendo di essere destinato ad im­pigliarsi fra gli stormi di piccioni curiosi, nelle strade del centro, o magari ad essere dirottato altrove, per lasciare la precedenza ai rin­forzi dell'aeronautica militare, in questa giornata di strapaese e di emergenza, e sarà forse necessario organizzare un atter­rag­gio di fortuna, presumibilmente dalle parti di Piazza Cinque Giorna­te, se esiste ancora, se non è stata trasferita in periferia o all'estero, co­mun­que al sicuro, se già non vi hanno alzato le barricate.

“Chi si è bevuto il succo di frutta?”, è l'innocente e retori­ca domanda che Giovanni pone a se stesso, esplorando le profon­dità del freezer, do­ve l'allegra compagnia sta facendo baldoria, e il camémbert offre altre coppe di champagne alla mozzarella di bufala, che finalmente è riuscita a liberarsi dall'abbraccio mortale del pecorino ammuffito e trasudante, e mentre il Bauer al limone corteggia, con fascino teutonico, una tavo­letta di Lindt mingherlina e fondente, che peraltro ha fatto girare la te­sta anche al sofisticato ed elegantissimo Emmenthal, il quale tuttavia, fra tutti, pare l'unico rimasto sobrio, e ciò dipende probabilmente dal fatto che mentre gli altri brindavano a champagne lui, dichiarandosi astemio, si scolava un intero succo di frutta, anzi quello che ne rimane­va, esat­tamente all'interno della bottiglia che ora giace vuota (“possibile?”, si interroga Giovanni) e di traverso a fianco del piattino burroso, dove prima c'erano due grappoli d'uva e, prima ancora, l'ul­tima salamella, e dove adesso invece c'è la Mazda che, fuggita una volta dalla periferia in­dustriale di Chemnitz, non credeva di doversi un gior­no sottrarre dall'aggressiva morsa di tre Superpila, fanatiche e sguaiate; le quali, all'interno della radiolina che Giovanni aveva dimen­ticato proprio nel freezer uscendo di casa, si stanno dispe­rando per le notizie che arri­vano da San Siro, dove il Milan e l'Inter avrebbero già sprecato numero­sissime occa­sioni da rete, se la visibilità non fosse nulla, se l'arbitro non avesse chiamato le squadre al centro del campo, rispedendole negli spogliatoi e rinviando a chissà quando la di­sputa del match, dell'attesis­simo derby d'andata, con sollievo dei tre unici spettatori presenti e pa­ganti, an­noiati e infreddo­liti. “Maledetta neb­bia, e maledetta domenica”, im­preca Gio­vanni, chiudendo violentemente lo sportello del freezer.

Mans

Il Gianni

Qualche mese fa. Una città come tante, senza identità, una città una volta industriale, nell’Alto Milanese. Elezioni comunali imminenti. Una tarda mattina di sabato. Via Milano è come al solito animata di massaie con la busta della spesa, poi donne d’età indefinibile che tra un po’ scompariranno nell’ingresso laterale della chiesa; mentre cercano stancamente d’avviarsi ragazzotti e pulcelle, hanno un altro sprint le quarantenni super truccate che sfoggiano la prima abbronzatura, e i tacchi sul selciato sembrano proporre un ritmo sudamericano ‘gardami-guardami-guardami’. Perché non accontentarle? Poi giovani mamme coi bambini in carrozzina e figli più grandicelli che imparano a camminare e a correre dietro il cagnolino di turno (sì Matteo, adesso ti porto in piazza dove ci sono i giochi!). Pensionati frustrati e incazzuti si mescolano ad avvocati e professionisti coi pacchi di giornali, economisti in carriera con tanto di “Sole24ore” sottobraccio, patente di nobiltà. Uomini politici e  politicanti locali, aficionados di partito e perditempo come me. Lungo la via si affacciano due o tre gazebo, sono le nuove tende di propaganda, con strilloni che invitano ad avvicinarsi, ma è difficile vincere la ritrosia lombarda, neppure attira la fettina di prosciutto e le scaglie di grana padano.

A un certo punto intorno al gazebo di centro si leva come un brusio, un’agitazione insolita. Dal bar di fianco una cameriera slava, occhi dolci, sta faticosamente traghettando l’aperitivo con un vassoio gigantesco. I bicchieri se ne stanno in perfetto equilibrio, persino le bollicine del prosecco sembrano acquattarsi per mantenere l’ordine assoluto: bisognerebbe applaudire dopo questo numero che si ripete tre volte. “Sta per arrivare, sta per arrivare!”. Nella melassa del solito tran tran quel richiamo e poi il chiacchiericcio che ne segue ha il valore d’uno sciame di vespe, ma a tale puntura sonora si riscuotono le coscienze, sia pure non ancora civili. Perché c’è l’attesa del vip, “speriamo non della politica!” sento mormorare. Solo qualche starletta televisiva o qualche poltronista  di grido riuscirebbe a perforare il guscio dell’apatia generale, i pensionati e l’avvocato occhialuto si avviano al gazebo e incominciano se non altro a inquadrare nel mirino il terzo prosecco di sinistra. L’Aristide, uno dei pensionati più svegli, che non molla mai la bicicletta, svela finalmente l’arcano. Lui conosce il nome di chi verrà, l’ha letto sulla “Prealpina” questa mattina, è un segreto di Pulcinella, eppure lui lo vende alla grande, riscuotendo ampi consensi. Ma va là, propri lü?  Sale il brusio e l’attesa.

Ormai il nome è sulla bocca di tutti, ma sarebbe stato sufficiente leggere il volantino giallo in distribuzione per apprendere la notizia. “Verrà offerto ai cittadini un aperitivo. In appoggio al candidato sindaco ci sarà la presenza dell’onorevole…”. Già, onorevole, ossia chi è degno d’onore… viene da ridere a pensare a quante brave persone si sono abbarbicate agli scranni del Potere… Sarà presente l’onorevole Gianni Rivera – ma Panzòn, te se propri sicur? L’è lü? -, ecco sputato il rospo, anzi il Principe Azzurro. Perché quel nome passa dalle labbra all'orecchio al cuore. E Rivera, il Gianni potrebbe essere diventato il Presidente di Vattelapesca, ma a noi non importa un fico secco. Lui è altro, è un pezzo d’Italia, nel bene e nel male.

“Ma l’è ancora un bel om, porcu can! – così si esprime la massaia settantenne –; “è ancora un bel figo” – così la quarantenne in minigonna - ; “Forza Milan!” – è il coro asmatico dei tre pensionati che hanno seguito i consigli dell’Aristide. In effetti l’onorevole è ancora in tiro, e nell’abito blu carta da zucchero perfettamente tagliato sembra più alto e non troppo imbolsito dall’inattività agonistica. Quanti anni avrà? Seguono calcoli complessi dei pensionati che ora sono diventato un gruppetto di scalmanati  (Alura, mi mi son sposato quando il Milan ha vinto la Coppa quindi… Ma no Ezechiele, la mè tusa, la Marcella, l’è nata nell’anno del secondo scudetto… quindi il Gianni… avrà non più di …). Come per le signore d’antàn nessuno osa chiedere l’età precisa al Rivera, ma l’età non conta. L’uomo che è miracolosamente apparso davanti ai vassoi dell’aperitivo è in effetti un uomo in forma, abbronzato,  sorriso aperto, capello ancora folto e brizzolato, très chic, vraiment, bravò! Sono tante le mani che stringe, io mi avvicino e non so proferire parola. Però ci tengo a toccarlo, come se dal suo corpo emanasse un’energia positiva, che ancora non so definire. Per fortuna nessuno parla di politica, nessuno. Neppure il candidato sindaco osa proporsi e sceglie un posto di retroguardia, la scena non può essere sua …

Sembra una riunione di famiglia e non solo di tifosi del diavolo. È sorprendente quest’attaccamento, come se il calcio di quegli anni avesse radici davvero popolari, rappresentasse in qualche modo quell’Italietta onesta e in bianconero. In breve Rivera è assediato e persino i pensionati più assatanati hanno dimenticato il flut prescelto (ma solo per un attimo, poi la mira si sposta sulle magre fettine di prosciutto). Qualche nostalgico filologicamente ferrato, ricorda al Gianni questo o quell’episodio, io ero presente a quel gol … mi ricordo il suo esordio… io c’ero… Rivera parla poco, risponde a monosillabi, capisce che è il ricordo che conta, quel grumo di emozioni che è meglio non sprecare con troppe parole.

Stupiscono le donne d’ogni età che come api ronzano anzi danzano intorno al polline tanto amato d’un azzurro intrigante. Forse un po’ il pavone, il Gianni, dice una gnocca abbronzatissima; ma che, l’è classe naturale le risponde mamma sua. Si sprecano i confronti con Clooney e con altri brizzolati a me ignoti. Intanto la via si è rianimata di un vortice di simpatia. Persino le giovani mamme s’avvicinano, e compare qualche papà, forse avvisato da radio popolare, che esce dal bar o dalla libreria circostante per controllare se c’è davvero il Rivera. Mi intenerisce un papà che issa il bimbetto sulla schiena come per vedere Gesù. Afferro qualche battuta del dialogo:
Vedi Lorenzo quel signore là? Era … è un grande calciatore.
Davvero? E di quale squadra?
Del Milan!
Un calciatore forte?
Sì.
Forte quanto?
Forte forte forte.
Come Totti?
Di più.
Come Ibrahimovic?
Di più.
Impossibile papà, allora era bravissimo.
Sì Lorenzo, chiedilo al nonno…
Bravivissimo come Messi?
Ecco, come Messi. Almeno per me… e… per il nonno.

Il bimbetto guarda quell’uomo vestito d’azzurro e poi guarda suo padre.
Il padre pensa a suo padre e si ritrova piccolo come Lorenzo. E se ne sta lì in silenzio come un baccalà. E io ascolto e mi sembra d’essere in un film in bianco e nero.
  
Alb

Indro Montanelli

"Spesso si dice che l'opinione pubblica è indignata. E magari è anche vero: al mattino. Alla sera siamo tutti a guardare la partita"


1909-2001 | Biografia

John Charles e Beppe Fenoglio














Darwin Pastorin
Beppe Fenoglio, tifoso della Juve e di Charles
L'Indice dei libri del mese (22 febbraio 2013)

Il cinema e il calcio continuano a interessarlo: trascinato dagli amici, è diventato filo-juventino, allo stadio, a Torino, vede dal vivo il debutto italiano del centravanti gallese John Charles, il "Gigante Buono": scherzando, dirà di portare sempre mutandoni lunghi "alla John Charles".

Leggendarie partite


Marco Ballestracci
A pedate. 11 eroi e 11 leggendarie partite di calcio

"Moran si attenne strettamente alle istruzioni di Obdulio Varela. Raggiunse la palla diverse volte, rilanciata dal jefe negro Obdulio o da pata loca Julio Perez. Altrettante volte affrontò Augusto in dribbling e in alcune circostanze lo saltò, offrendo poi palla a Schiaffino o crossando per la deviazione acrobatica di Oscar Miguez. I duecentomila del Maracanà lo intimorirono solo all'inizio, ma, dopo un po', si accorse che Obdulio aveva ragione. Quei duecentomila non giocavano, urlavano e guardavano solamente".

Alcune tra le più combattute e clamorose sfide di calcio viste con gli occhi di chi ne è stato protagonista. Da Carletto Ceresoli nell'epico scontro Inghilterra-Italia del 1934, fino al Karl Heinz Schnellinger dell'altrettanto leggendario match Italia-Germania nel 1970. Grandi campioni, ma anche illustri sconosciuti e pagine indelebili della nostra storia.

Kraìna!

Tutto si è già sgretolato nella voragine nera della dimenticanza, chi mai si ricorda degli ultimi Campionati d’Europa, quelli targati Polonia-Ucraina? Eppure i baldi giovinotti d’italica razza secondi arrivarono, o no? Io pure, sventurato figlio di Mnemosyne non sfuggo all’oblio, alla dimenticanza. E fa un certo effetto ritrovare nel cassetto un raccontinello magro magro, che ormai non serve più, è scaduto come succede per i cibi. Ma io non voglio buttarlo via, magari a qualcuno potrà servire, almeno per sorridere di tanta ingenuità. Fate vobis: è a gratis, come si dice da noi.

Nonostante la delusione finale, con scoppola iberica, l’ultimo Campionato europeo qualche effetto positivo l’ha avuto, forse. A parte il deleterio interesse da parte di mogli-fidanzate-amanti che dopo averti insultato per l’intero anno quando ti sapevano allo stadio o davanti alla TV (in contemporanea c’era sempre un programma alternativo e per loro imperdibile e avendo un solo televisore ti odiavano a morte), ti si sono sedute accanto dolci dolci e carine, “ma solo quando gioca l’Italia cocco mio bello!” (meno male!!). Nessun problema, anzi. Anche se ciò ti impedisce di sdraiarti comodo comodo, gambe allungate canottiera e bibita d’ordinanza, nessun problema. Se non che ‘ste donne non sanno gioire e inveire coi tempi giusti, e purtroppo non sanno stare in silenzio e soprattutto intervengono nei momenti top con domandine semplici semplici del tipo “che ffigo quello, dove gioca, non l’ho mai visto”, così tu devi rispondere al volo la prima cazzata che ti viene in mente, purché credibile (il giorno dopo però si informano in internet e sono cazzi amari), ma non è sempre agevole rispondere sull'ultimo nazionale svedese o sugli inni nazionali (“ma quello tedesco è pari pari a quello nazista che ho sentito ieri, come si intitolava il film, sai quello con quell'attore, come si chiamava?”). La domandina più odiata dagli italiani maschi calciofili credo sia la solita, “scusa mi spiegheresti il fuorigioco?”. “Dopo”, di solito si risponde, ma ormai è finita, si è entrati nel tunnel e non se ne uscirà più vivi: “dopo quando? È dai Mondiali che me l’hai promesso…”. Appunto, ora concediamoci una pausa in attesa dei Mondiali …

Gli effetti positivi sono in genere sul piano, diciamo così, geografico, perché i campionati mondiali e quelli europei consentono un ripassino soprattutto dell’area mitteleuropea (“Noooo, non si chiama più Cecoslovacchia? Ma va, tu mi prendi in giro e mi credi scema!, dimmelo!” Risposta: “Scema”. Seguito: scenata con pianto e fuga – meno male!), o di quella balcanica, da sempre piuttosto ostica, per cui non è semplice rispondere al volo dove finisca esattamente l’Istria slovena o quella croata (“ma sì dai, non ti ricordi più? Ci siamo andati sei anni fa con Marione e Cinzia!”), soprattutto se nel frattempo l’Italia è passata in vantaggio su punizione di Pirlo. Solite sceneggiate di casa nostra, nihil novi sub sole direbbe il professor Padalocchi.

E invece qualcosa di nuovo l’ho visto coi miei occhi, l’ho ascoltato con le mie orecchie. Non so voi, ma io da buon fancazzista (scrivere non è un lavoro, si sa) girando per le piazze del mio natio borgo, spesso mi sono divertito ad osservare e ad ascoltare – senza capirci nulla, se no che gusto c’è? – i gruppetti di badanti che si ritrovavano e tuttora si riuniscono in posti fissi a orari fissi. Così so che posso trovare domenica pomeriggio le rumene e le moldave davanti alla Chiesa del Gesù, le polacche il giovedì di fronte alle scuole Tommaseo, le russe il martedì davanti all'Asilo Sant'Anna, le ucraine, che da noi sono le più numerose, ogni sabato davanti alla gelateria del Conte Rosso. Nei giorni degli Europei, le polacche e ancor di più le ucraine erano le più eccitate e discutevano di calcio (poco) e del loro paese (tanto) con un’insolita fierezza. Considerate spesso da noi (che non riusciamo a imparare una lingua slava neppure dopo trent'anni di studio e permanenza in loco) troglodite, venute da un paese povero e lontano per fare ciò che nessuno di noi farebbe mai, le ucraine sono state almeno per un giorno le più felici, dopo la vittoria sugli svedesi (che nella loro lingua confondono un po’ con gli svizzeri), Santo Sheva prega per noi!

Per fortuna non ci sono stati scontri fratricidi, con risse fra badanti ucraine e infermiere ceche, ma so che hanno alzato la voce le cuoche russe con le ceche, o forse era il contrario, o c’entravano le moldave invidiose delle rumene, boh. Poco male, nessun ferito. E tuttavia io ho provato piacere ad ascoltare i loro discorsi, a immaginarne il contenuto e comunque intuire che attraverso la televisione loro sono finalmente esistite come persone, donne appartenenti a un paese che ha comunque saputo organizzare gli Europei in stadi per altro bellissimi, se paragonati ai nostri catorci. Di altro a loro non interessava, ma avevano gli occhi lucidi quando pensavano a Kiev o a Varsavia.

Viva il calcio che affratella e (nel caso specifico) assorella. Però non esageriamo, come dice il mio amico Gaspare Ambrogio Candiani (detto Frizer, ma si pronuncia Friser), non esageriamo, perché queste qui (le badanti) ci inquinano l’ambiente, ci rovinano le famiglie, ci uccidono il tifo. Strano discorso il suo per un padano doc, leghista della prima ora, che è stato persino scaricato da un’albanese (ma, lui assicura, “ma l’è mei un’albanesa d’una calabresa, ostia!”). La faccio breve. In pratica il Frizer si è incazzato perché le badanti hanno preteso di vedere le partite alla TV, e hanno ostentato un tifo rumoroso e hanno coinvolto i loro datori di lavoro, in primis i vecchietti semirincoglioniti (parole del Frizer, absit iniuria verbis) che accudiscono quotidianamente. Sembra che abbiano visto insieme le partite con bandierine e cappellini di carta giunti via corriera dal paesello, e che anche i nonnetti sdentati abbiano incitato a tutta voce (si fa per dire) Ukraina, Ukraina! Speriamo, diceva lui, che questi qui (Sheva & Comp.) tornino presto a cà sua perché l’è l’ura de la racolta del grano e qui ci hanno già mangiato la grana, che ci lascino in pace, noi e i nostri veci padani, che noi abbiamo fatto la guerra contro queli là, ostia! È stato presto accontentato, ciao ragazzi ciao!

Il solito razzista il Frizer, non c’è dubbio. Ma provate voi ad andare dal vostro vecchio novantenne che vi aspetta con bandierina e qualsiasi cosa gli diciate vi risponde “Quando gioca ancora Kraìna?" Provate voi, provate! Bossi, Maroni, pensateci voi, Kraìna!

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Azzurro tenebra


















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Giovanni Arpino
Azzurro tenebra

Stoccarda, giugno 1974, Mondiali di calcio: nonostante campioni come Riva, Mazzola, Rivera, Facchetti e Zoff, la nostra nazionale viene eliminata al primo turno, in mondovisione e sotto gli occhi attoniti di migliaia di emigrati italiani. Protagonista autobiografico di Azzurro tenebra è un inviato speciale che si firma “Arp” e assiste alla disfatta insieme al giovane cronista-scudiero “Bibì”, come un Don Chisciotte del giornalismo affiancato dall’immancabile Sancho. Testimoni di un evento sportivo che presto assume i toni del grottesco, i due uomini sanno leggere in filigrana dentro quello che solo uno sguardo superficiale potrebbe archiviare come “niente altro che calcio”, e vi scorgono il destino desolante di un Paese già votato allo scacco e a un malinconico tramonto. Scritto a muscoli tesi, con estro espressionista, il libro, uno dei più belli e sofferti di Giovanni Arpino, si trasforma pagina dopo pagina nel glaciale referto di un doppio fallimento: la sconfitta sul campo e l’insufficienza estetica del gioco degli azzurri rispecchiano la generale carenza di etica e la miseria della condizione politica nel Paese.

1977  | 2010 BUR | L'autore | Il romanzo

David Trueba

"La giovinezza finisce il giorno in cui il tuo calciatore preferito ha meno anni di te"


1969 | Biografia

Selvaggi e sentimentali


Javier Marías
Selvaggi e sentimentali. Parole di calcio

Nelle pagine di questo libro, uno Javier Marías conciso, autobiografico e bellicoso ci racconta giocatori e tifosi, allenatori e presidenti, sconfitte e trionfi di uno sport che lui stesso definisce il «recupero settimanale dell'infanzia». Gli oltre quaranta articoli qui raccolti sono apparsi fra il 1992 e il 2001 su «El País» e sul supplemento «El Semanal»; l'argomento che li domina, piú che accomuna, è il calcio. Il libro ha finito per riscuotere un grande successo, inatteso forse e di certo singolare, perché ha conquistato soprattutto le donne: quelle stesse che «fino ad allora non avevano capito niente di calcio e nemmeno di che cosa trovassero in quel gioco i loro mariti, fratelli, padri, amici e amanti». La raccolta è composta dai testi probabilmente piú autobiografici che Marías abbia mai scritto: il suo modo di vivere la passione calcistica (è tifoso del Real Madrid ma anche sponsor di una squadra minore, il Numancia) affiora sotto forma di impulso sentimentale, di un'emozione legata agli anni dell'infanzia (e a un mondo passato e ormai mitico che giganteggia nella memoria). Ma anche il presente è ben tratteggiato, e i brevi testi permettono al lettore di scrutare, attraverso l'occhio di un esperto, le vicende del calcio spagnolo e mondiale; soprattutto permettono di godere la prosa fluente e spontanea di Marías da un'originale prospettiva «d'occasione».

2002 | Einaudi

Le ceneri del Mago

di Giancarlo Dotto

"Oh, come tutto è provvisorio!"

Igienista e ateo convinto, scappava dalla monotonia come fosse la peste. Lo chiamavano “il Mago” perché trovava sempre la via più breve per arrivare al cuore delle cose. In porta o all'inferno. Suarez o il fuoco. Non importa come. “Due passaggi e gol”. Il suo slogan preferito. La sua combustione. Un anarchico errante, senza patria, conosciuto in tutto il mondo come H.H. Irrequieto da vivo e ancora più da morto. Smanioso di accendersi e di accendere gli altri.

Odiava il freddo e, a modo suo, apprezzava il focolare domestico. Purché non fosse mai lo stesso. Una sera si lasciò andare a tavola con la sua sterminata tribù multietnica, riunita per festeggiare l’anniversario del patriarca nato in un’isola bianca del Rio de la Plata o del Tigre, non si sa bene quando, tra gli ottanta e i novanta anni prima. "Da morto voglio essere cremato. Troverete per le mie ceneri un posto dove batta il sole e si senta il rumore del mare", aveva detto allegro ai suoi. Lo presero in parola, soprattutto Fiora, la moglie. Non poteva immaginare a cosa sarebbe andata incontro.

Il Mago adorava le donne e le Madonne. Spaccone e bugiardo con le prime, umile e arreso con le seconde. Qualcuno lo vide genuflesso alla grotta di Lourdes che pregava intensamente nella lingua in cui pensava, lo spagnolo. Uno dei suoi ultimi viaggi. L’ultimo fu, pochi mesi dopo, al cimitero di San Michele, detta anche l’isola dei fantasmi. Un labirinto dove ci si perde e ci si ritrova in ogni momento nell'allucinazione fosca delle nebbie, delle acque alte, delle gondole e dei vaporetti che traghettano a ciclo continuo parenti, becchini, cadaveri e turisti.

Nei forni crematori del cinerario, H.H. si presentò sigillato in un guscio di noce, inappuntabile nel suo abito e scarpe marroni, la cravatta verde e il messaggio d’amore di un tifoso stretto tra le dita, uno dei tanti ("Non potrò scordarti mai"), gli occhi beccati dalla morte e, congelata all'angolo delle labbra, la smorfia delle volpi impagliate, tra il sardonico e lo spaventato. Lo avevano sbirciato in tanti nella camera ardente della chiesa di San Giovanni e Paolo. Amici, parenti, tifosi, nostalgici e curiosi, i suoi calciatori di un tempo, tutti, anche Mariolino Corso, il sinistro vizioso di Dio, che aveva speso gran parte del tempo a spedirlo, quel mago di buonadonna, nei luoghi più torbidi della terra e ora che c’era finito davvero non gli pareva vero. Perché tutto sembrava, Acca Acca, meno uno disponibile a morire. Il suo vecchio compare di panchina Nils Liedholm era rimasto un paio di minuti a fissarlo pensoso dall'alto, con la sua faccia indecifrabile da totem vichingo. Probabilmente apprezzando in cuor suo la circostanza che li voleva così, lui lì nel ruolo di chi porge l’estremo saluto e l’altro, l’amico, in quello del caro estinto.

Non poté invece apprezzare, il Mago, l'affettuosa perizia con cui Gaetano, impiegato al cimitero di San Michele, tifoso interista da sempre, lo ridusse in cenere. I due s’incrociavano tutte le settimane, il sabato pomeriggio, lungo le calli di Venezia, che H.H usava molto prosaicamente come palestra personale ("la migliore al mondo") per fare l’interval training e le ripetute. Gaetano lo salutava ogni volta con rispetto. Il mago replicava con un lieve cenno del capo, probabilmente ignorando che quel tipo soave e corpulento un giorno lo avrebbe restituito allo stato più elementare della materia, in ossequio alla fondamentale lezione gesuitica del "polvere eri e polvere tornerai".

Abilissimo nel manovrare i tasti della combustione a metano, Gaetano si comportò da quell'esemplare professionista che era anche il giorno che gli consegnarono H.H., il suo eroe, in una versione definitivamente diversa da quella che era abituato a conoscere. Accese i tre bruciatori. La fiamma divampò subito enorme, avvolgendo la bara del mago in un rogo che lo accostò per sempre a tutti gli eretici, le streghe, gli eccessivi di ogni epoca. Due ore a novecento gradi bastarono a liquefare l’insieme, corpo, mago e legno. Alla fine, tutto quanto restò del Mago, un uomo da ottanta chili, brillantina inclusa, erano pochi residui polverosi, qualche ossicino sbriciolato e tanta brace ancora buona per arrostire un pescespada. "Un chilo di cenere più o meno", quantificò puntiglioso Gaetano, che un po’ era dispiaciuto d’aver incenerito H.H., un mito del calcio, ma adesso non vedeva l’ora di raccontarlo ai figli.

"Ma come, non conoscete il Mago? Era un genio molto bugiardo. Aveva fatto grande l’Inter grazie anche alle bugie. Passava ore a convincere Tagnin che era un fenomeno, Bicicli che era più forte di Garrincha. E loro ci credevano. Sapevano che era una delle sue fanfaronate, ma funzionava, eccome se funzionava". I figli lo ascoltavano a bocca spalancata, ammirati, ma anche intimoriti da quel padre enorme che inceneriva i miti.

H.H. cominciò a morire alle due di notte in un letto d’ospedale nella Plaza Mayor di Madrid. Un lieve attacco cardiaco. Allarmante per uno già scampato anni prima all'infarto. Il Mago non aveva letto Seneca ma ne condivideva il concetto: “Siamo vissuti tra i marosi, per morire torniamo in porto”. Abbandonò l’ospedale nottetempo, all'insaputa dei medici. Se proprio era necessario, voleva morire a casa. La sua splendida casa cinquecentesca a Rialto. La mattina dopo lo chiamano, c’è l’ambulanza nel canale che lo aspetta. "Che aspète! No ho finito di farme la barba!". All'ospedale civile di Venezia lo intubano. Fece in tempo a dire a Fiora. "Non me fido qui, le infermiere hanno il culo molle, chi ha il culo molle non capisce". L’ultima, folgorante sintesi nel suo miscugliato idioma di veneto e spagnolesco. Nascondeva le lettere delle sue spasimanti nel materasso. Fiora gliele traduceva con sublime distacco. L’ultima non fece in tempo. Lo rivide l’ultima volta che aveva una macchia viola, gelatinosa sul collo. "Dobbiamo cremarlo, era la sua volontà". Ma non c’era posto nel forno. Bisognava attendere. Lo sistemarono nel freezer. Quanto di peggio per uno come lui che non sopportava il gelo. Un turnista dell’obitorio, zavorrato d’oro e orecchini, s’inventò di esporlo con tutta la brina in faccia e sui vestiti. Al Mago piaceva truccarsi da clown per far ridere i figli, ma questa volta avevano esagerato.

Gaetano in persona consegnò, non senza un briciolo di commozione, le ceneri a Fiora. Due chili circa incluso il cofanetto e la piantina per trovare un loculo libero in quel labirinto. Fiora Gandolfi, turbante nero e scialle di porpora, era una vedova senza lacrime e con la sacca piena di ricordi. Più stupita che addolorata. Pianse anche per lei la figlia Luna. Aveva due anni quando il padre malato l’affidò a quei due, Fiora ed Helenio, che si stavano imbarcando al porto di Barcellona, in partenza per Genova: “Prendetela con voi, vi prego, ho pochi giorni di vita, sono spacciato”. Fu trovato pochi giorni dopo, morto alcolizzato dentro un water.

C’era vento. Fiora si perse e si ritrovò. Si perse ancora. Aveva terrore di scivolare. Se fosse caduta, la scatola si sarebbe aperta e le ceneri sparse, mescolate tra la sabbia e i sassi, non sarebbe stato più possibile distinguerle da tutto il resto. Ci voleva un muro dove battesse il sole e si udisse il rumore del mare. L’aveva chiesto il Mago, quella sera. Fiora ne trovò uno in un angolo sperduto, che si era appena liberato. Una bara deformata dai gas, quasi esplosa. Il cadavere, lì da quindici anni, aveva divorato i conservanti, era quasi integro, solo marcio dentro. Il posto era bello, ma il tanfo insostenibile. A furia di perdersi, capitò nel recinto evangelico. Qui tutto era perfetto. C’era calma, luce, la parete era bella. All'altezza di un uomo adorato dalle folle e dalle donne. L’urna come voleva lui, in alto, esposta al sole. E il rumore della laguna. A pochi metri dalle tombe di Ezra Pound e di Igor Stravinsky. Mancava solo il permesso della chiesa evangelica. Una formalità le dissero. "Qui sono sepolti cattolici, atei, ebrei". Ci voleva adesso una bella tomba. Fiora si attivò. Convocò un antiquario di Venezia, scelse il marmo migliore e commissionò l’urna a forma di Coppa dei Campioni. I lavori erano già iniziati quando si presentò una lugubre signora a nome della chiesa evangelica: "La tomba è un orrore, non vogliamo una tomba che somigli a un campo di calcio", fece sapere alla moglie e ai figli di H.H. Un caso di spocchioso razzismo verso "un plebeo" che aveva vissuto di calcio, la più plebea tra le attività fisiche umane. Che ne sapeva quella megera di H.H., dell’eroe picaresco dall'etica di ferro, che s’ispirava agli esercizi spirituali di Ignazio de Loyola e credeva nel valore orfico della parola? Che cercava sempre cielo, terra, acqua, verde, aria, ma si appartava nelle chiese per meditare, e di sé diceva, fino a convincersi: "Sono forte, tranquillo, sicuro, non ho paura di niente…Sono bello". La motivazione ufficiale della chiesa evangelica fu un’altra: "Non c’è più posto nel nostro cimitero per i non protestanti".

Una maledizione. Non avrebbe smesso di vagabondare nemmeno da morto, il Mago errante. Negato alla sepoltura, come Giordano Bruno, come altri grandi eretici. Le sue ceneri, ammucchiate in un cofanetto della Sperlari su cui Fiora aveva passato una mano di blu e inciso una foglia d’oro zecchino, restarono a lungo dimenticate in un loculo abusivo. Il nome di Helenio, scribacchiato a mano con il pennarello delebile del custode, si distingueva appena. in quella specie di colombaia altissima, dove Fiora arrivava tra le vertigini, in punta di piedi, arrampicandosi su una scala da pompieri e sistemando sull'ultimo gradino un Gabrielli, il dizionario dei sinonimi, ideale per questo genere di imprese.

Si offrirono in molti di ospitare Helenio nelle loro tombe di famiglia. Arrivarono petizioni, raccolte di firme, anche da Barcellona. Si sprecavano gli appelli, da Berlusconi a Biscardi. C’era la tomba a Casablanca della mamma e del papà di H.H., quella di Parigi dove era sepolta Daniele, la figlia morta a vent'anni per avvelenamento da colori tossici. Ma Fiora non si dava per vinta. “Quello è il suo muro, quella è la sua tomba. Non ce ne saranno altre”. Scrisse anche alla regina d'Inghilterra che, nella sua stanza da letto a Buckingam Palace, di fronte al baldacchino, ha una collezione unica di vedute veneziane del Canaletto. "Her majesty…", cominciava così la lettera, da manuale, scritta insieme a un amico maestro di corte.

La buona notizia arrivò finalmente, quattro anni dopo. Gli anglicani avevano dato il permesso. Le ceneri del Mago potevano essere sepolte nel posto che gli spettava. Ma non bastava. La lettera restò chiusa nei cassetti del Comune. Il permesso della Usl non arrivava. Passarono altri mesi. Altri appelli. Altre denunce. Il Mago non trovava pace. E con lui Fiora. Che cominciò ad aggirarsi per gli uffici del Comune come un collerico arcobaleno, minacciosa, un pipistrello rosa all'occhiello, al posto del fiore. Ma gli uomini, si sa, sono daltonici, non vedono i colori. E nemmeno le donne straziate.

Arrivò anche la firma del sindaco. Un giorno storico per H.H. La vittoria più sofferta, altro che Coppa dei Campioni! Pioveva e le gocce erano pesanti come proiettili astiosi. Il beccamorto s’arrampicò sul cofanetto della Sperlari, lo aprì e rovesciò le ceneri del Mago lungo l’imbuto nell'urna definitiva. Non era facile, a quella altezza e sotto il diluvio. Qualche granello di polvere scivolò fuori dall'imbuto, disperdendosi nel terriccio bagnato. Gaetano, che se ne stava in disparte, aspettò la fine della cerimonia, raccolse di nascosto quei granelli, li chiuse in un fazzoletto e li portò a casa. "Sono le ceneri del Mago" disse, regalandole ai figli, tifosi interisti anche loro “Conservatele in un posto asciutto e, tutte le volte che la vita vi sembrerà dura e sentirete di non farcela, stringetele forte e ripetete a voce alta questa frase magica: "Taca la bala!".

Il testo - disponibile nel sito ufficiale di Helenio Herrera - ha vinto il premio "Racconto sportivo CONI, 2001"