Müller

I ritratti di Eduardo


Il tecnico del TSV di Monaco gli aveva detto: "Nel calcio non farai strada. Ti conviene dedicarti a qualche altra cosa".

A quel tempo, Gerd Müller lavorava dodici ore al giorno in una fabbrica tessile.

Undici anni dopo, nel 1974, questo giocatore, tracagnotto e con le gambe corte, divenne campione del mondo. Nessuno segnò più gol di lui nella storia del campionato tedesco e della squadra nazionale.

Lupo feroce, a malapena lo si vedeva sul campo; mascherato da nonnina, nascosti i denti e le unghie, camminava dispensando passaggetti innocenti e altre opere di carità. Nel frattempo, senza che nessuno se ne rendesse conto, scivolava verso l'area di rigore. Davanti alla porta si leccava le labbra: la rete era il pizzo di una ragazza irresistibile. E allora, improvvisamente nudo, lanciava il suo morso.

‘A Stukas, crossa ‘sta palla!

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Nato a Bologna, ma cresciuto calcisticamente in Friuli, la tradizionale fucina del calcio italiano. Il fisico asciutto e nervoso facevano di Pasolini un’ala naturale dallo scatto bruciante, tanto da meritarsi il soprannome di “Stukas” proprio per la sua velocità, ma amava molto svariare nelle altre zone del campo e trasformarsi in autentico regista della squadra. Questa sua caratteristica lo rendeva difficilmente marcabile dai terzini dell’epoca, abituati alla marcatura a uomo.

Trasferitosi a Roma, nella capitale visse le sua annate migliori, formando con Alberto Moravia una delle coppie più amate dal pubblico dell’Olimpico. Stadio che peraltro lui non amava perché troppo borghese, tanto è vero che appena poteva se ne andava a giocare sui campetti spelacchiati delle borgate romane. Solo lì in mezzo alle baracche riusciva a trovare ancora quello che per tutta la vita ha rimpianto come il calcio vero, quello di strada. Si sentiva a suo agio con quelli che chiamava “ragazzi di vita”, a molti dei quali si affezionava e che spesso poi aiutava a inserirsi nel giro del grande calcio.

Amava stupire il pubblico e la critica in campo e fuori. In un’intervista arrivò a dire: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”. Giocatore raffinato, ma dal carattere ombroso, fu spesso al centro delle polemiche per le sue dichiarazioni “fuori dal coro” contro il potere calcistico. Nel 1975, al termine di una delle sue frequenti trasferte notturne in periferia, trovò la morte in circostanze tragiche e mai del tutto chiarite.
(2013)

Giancarlo Antognoni


Giancarlo Antognoni

Figliolo di città-fazione,
d’un campanile ricco di notari,
messeri, pictori et speziali.

Pargolo di Madonna Bella,
tra le ombre e gli odori
del Brunelleschi ti nutristi
con Manuali delle Fortificazioni
e tecniche balistiche; la purezza
delle geometrie ti venne da studi
malatestiani da cui l’Alberti
avvisò che la prospettiva
dava frutti in un punto.

Marái e le braci del centrocampo

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Un centrocampista elegante, dotato di una tecnica sopraffina, che giocava a testa alta e sapeva come impostare la manovra. Sándor Marái era il mediano della Honved e della Aranycsapat, la “Squadra d’Oro” degli anni Cinquanta, vale a dire la grande Ungheria dei Puskas, dei Bozsik, dei Czibor e dei Kocsis. Insomma faceva parte di quell'incredibile generazione di campioni che ha incantato il mondo prima di emigrare e trovare fama e fortuna in Occidente. Anche Marai lasciò l’Ungheria per giocare prima in Svizzera e poi nel campionato italiano con la maglia azzurra del Napoli, ma, per imperscrutabili motivi, nonostante le sue indubbie qualità, non raccolse la stessa fortuna dei suoi compagni. E di lui si persero le tracce.

In realtà da allora Marai, amareggiato e disorientato, condusse un’esistenza che fu solo un lungo esilio, vivendo sempre in condizioni precarie. A un certo punto, lui che aveva calcato da protagonista i campi più prestigiosi della vecchia Europa, finì per approdare a San Diego in California per giocare nel “soccer” americano. Lì visse per lunghi anni come un pesce fuor d’acqua. Aveva un che di patetico vederlo scendere in campo con quell'aria perennemente malinconica stampata in volto e sciorinare il suo raffinato repertorio tecnico, del tutto incomprensibile per i suoi mediocri compagni di squadra, davanti a un pubblico distratto di surfisti in costume da bagno. Poi quando il grottesco superò il limite, Marai diede il triplice fischio di chiusura e uscì di scena. Per sempre.
(2013)

Quel talento di Mister Bagnoli

di Massimo Raffaeli

Troppo facile dire che nel calcio di oggi uno come Osvaldo Bagnoli sembrerebbe un extraterrestre, troppo facile spendere tutti gli aggettivi dell’etica a proposito di uno come lui. Tuttavia è così, nell’odierno football professionistico uno come Osvaldo Bagnoli rimane l’eccezione che conferma la regola, tuttora vigente e anzi dilagante, sia dell’opportunismo sia di una disinvoltura morale e professionale talora molto prossima alla repellenza. Se nel calcio esiste uno Special One, sul serio non può essere che uno come lui, pure se il termine gli farà spavento. I giornali hanno già scritto come il 6 febbraio di vent’anni fa, appena esonerato dall’Inter dopo un rocambolesco rovescio interno con la Lazio, Bagnoli disse basta e non mise più piede in un campo da calcio. Eppure aveva solo cinquantotto anni, eppure era stato l’ultimo allenatore a vincere lo scudetto con una provinciale, il magnifico Hellas Verona del 1985, battendo un record che da allora nessuno ha saputo eguagliare.

Ma Bagnoli resta un uomo laconico, renitente ai proclami non per alterigia ma per un senso innato della misura, quasi per un istinto di normalità che per lui è evidentemente inderogabile. Nato a Milano nel 1935, quartiere della Bovisa, in via Candiani dalle parti delle Ferrovie Nord, di famiglia operaia, aveva esordito nel Milan da ala destra vincendo il campionato 1956-‘57, poche partite prima di tornare fra i rincalzi lasciando il posto a un asso quale Tito Cucchiaroni: non era stato un grande calciatore, solo un buon professionista, generoso e affidabile, presto riciclato all'indietro da mediano o battitore libero, flottando fra la A e la B fino al 1973, per chiudere col Verbania dopo avere indossato le maglie di Verona, Udinese, Catanzaro e Spal. Solo i calciatori modesti diventano grandi allenatori, perché del gioco conoscono i difetti in prima persona e, viceversa, individuano d’acchito il talento che non hanno mai avuto: rispetto del lavoro, umiltà, pragmatismo sono infatti, e da subito, i suoi tratti elettivi in un profilo ben riconoscibile. In panchina sta seduto, stringe gli occhi e la fronte gli si increspa di rughe profonde (Gianni Brera, che per lui stravede, lo chiama «Schopenauer»), ha il naso aquilino, soffre di sinusite cronica e porta la casquette degli operai pure quando c’è il sole.

Il primo incarico è a Verbania, dove ha appena smesso di giocare, seguono la Solbiatese, il Como, il Rimini e il Fano in un crescendo di risultati che sempre corrispondono a delle promozioni e dunque, virtualmente, a altrettanti scudetti. Il pubblico all’inizio non si entusiasma ma prende comunque ad amare quell’uomo piccolo e magro, dal profilo schietto e tagliente, un individuo che non ride volentieri e preferisce, quando può, esprimersi in dialetto. Fano è il vestibolo del grande calcio, nella stagione ’78-’79, e lì Bagnoli è già Bagnoli: il poeta fanese Marco Ferri, per esempio, senza avere ricordi specifici ha memoria di un uomo «stimatissimo sia come allenatore sia come persona», chi scrive lo rammenta camminare silenzioso per i vicoli del centro storico, una figura schiva e quasi inapparente. Dopo Fano, due ottimi campionati al Cesena e quindi Verona, dove resta un decennio, dal 1981 al ’90. Gli affidano una squadra di seconda fila, quasi un bricolage di esordienti e calciatori altrove rifiutati, ma lui costruisce uno squadrone.

Nella stagione dello scudetto, il portiere è Garella, non un prodigio di eleganza ma imperioso nelle uscite; poi i terzini Volpati e Marangon (quest’ultimo un mancino incostante ma estroso) e al centro Fontolan con un libero di nitido stile, Tricella; in mezzo al campo, insieme col tedesco Briegel, massiccio e deterrente, è piazzato davanti alla difesa, con funzioni di centromediano metodista, Antonio Di Gennaro, uno dei giocatori più classici e più regolarmente sottovalutati di quegli anni; da tuoni e fulmini è senz’altro l’attacco dove sulla destra agisce Pietro Fanna, un tornante infaticabile ma capace di rifinire e concludere, al centro Giuseppe Galderisi detto Nanu (quasi un Paolo Rossi in sedicesimo) e vicino a lui una forza della natura, l’uomo del contropiede e delle conclusioni più squassanti, l’ineffabile bon vivant Preben Elkjaer Larsen. Quando il Verona vince il campionato, la grande stampa, legata alla tiratura e perciò al tifo maggioritario, finge di lodare Bagnoli ma in realtà lo bolla di passatista e di catenacciaro, titolo da sempre nefando per l’italica demagogia. Solo Brera gongola e scolpisce su Repubblica il ritratto di un «tecnico di piglio schietto e talora burbero, mai insensato o cattivo» aggiungendo, neanche a dirlo, che si tratta di un «pragmatico di caratteristica indole lombarda».

In realtà, il Verona fa girare la palla a centrocampo e aspetta l’occasione per il contropiede però in difesa alterna la zona alla classica marcatura a uomo. Bagnoli è tutto meno che un dottrinario, se la stessa estate dello scudetto, intervistato da Gianni Mura al mare di Cesenatico (L’Osvaldo in riva al mare, ora nella ricca antologia muriana Non gioco più, me ne vado, Il Saggiatore 2013), gli confessa: «Io non mi innamoro di un modulo così per innamorarmi, faccio giocare la squadra in base alle caratteristiche dei giocatori. (…) Una squadra è fatta di equilibrio. Adesso devo solo parlare molto più di prima per spiegare com’è e come non è, la rava e la fava». L’exploit naturalmente è irripetibile e Bagnoli, che non ha mai promesso nulla, se ne va al Genoa per un altro biennio, culminante nell’accesso alla semifinale di Coppa Uefa: il Grifone è battuto dall’Ajax ma prima ha eliminato il Liverpool espugnando addirittura Anfield Road con due gol di Pato Aguilera.

A un certo punto per Bagnoli si profila la panchina del Milan e pare sia proprio Gianni Brera a fare il suo nome al presidente ma gli si fa notare da cotanto megalomane, con una certa compunzione, che è impossibile assumere un notorio «comunista». (In effetti il tecnico della Bovisa, per sua stessa ammissione, è un uomo di sinistra ma ha sempre votato socialista seguendo l’esempio del padre). Invece va all’Inter e per lui è l’inizio della fine, nonostante un ottimo secondo posto nel campionato ’92-‘93. Se al benservito del 6 febbraio ’94 risponde con il ritiro dal mondo del calcio, è evidente che da tempo il suo bilancio, morale e professionale, è andato in rosso e che non ne può più. Questi ultimi vent’anni sono di riserbo pressoché assoluto, l’Hellas gli ha dato un tessera d’onore e capita talvolta che vada allo stadio ma rigetta, con coerenza e persino con ostinazione, ogni proposta di ritorno. Parla meno di sempre, concede rarissime interviste ma in una molto bella, rilasciata ad Alberto Costa del Corriere della Sera l’11 novembre del 2006, dice di essere stato deluso specialmente dai giovani calciatori, che «pretendevano tanto e davano poco» e, a proposito di sé e del suo addio al calcio, si limita a rilevare che quando un insegnante non sopporta più i suoi allievi, allora è meglio che smetta. Come sappiamo, Osvaldo Bagnoli non si è limitato a proclamarlo, ma l’ha fatto. E da autentico maestro, altro che Special One. 

"Il Manifesto", 15 marzo 2014

Polirrítmico dinámico a Gradín, jugador de football

Il poeta futurista peruviano Juan Parra del Riego (1894-1925) dedicò questa poesia al primo idolo del calcio uruguagio, Isabelino Gradín, nipote di schiavi africani, il primo capocannoniere della prima Copa América, quella del 1916: a 19 anni fu il primo calciatore nero della storia di una nazionale in una competizione ufficiale.

Polirrítmico dinámico a Gradín, jugador de football
di Juan Parra del Riego

Palpitante y jubiloso
como el grito que se lanza de repente a un aviador,
todo así claro y nervioso,
yo te canto, ¡oh jugador maravilloso!
que hoy has puesto el pecho mío como un trémulo tambor.

Ágil,
fino,
alado,
eléctrico,
repentino,
delicado,
fulminante,
yo te vi en la tarde olímpica jugar.
Mi alma estaba oscura y torpe de un secreto sollozante,
pero cuando rasgó el pito emocionante
y te vi correr...saltar...

Y fue el ¡hurra! Y la explosión de camisetas,
tras el loco volatín de la pelota,
y las oes y las zetas
del primer fugaz encaje
de la aguja de colores de tu cuerpo en el paisaje,
otro nuevo corazón de proa ardiente,
cada vez menos despacio
se me puso a dar mil vueltas en el pecho de repente.

Y te vi, Gradín
bronce vivo de la múltiple actitud,
zigzagueante espadachín
del golkeeper cazador,
de ese pájaro violento
que le silba a la pelota por el viento
y se va, regresa y cruza con su eléctrico temblor.
¡Flecha, víbora, campana, banderola!
¡Gradín, bala azul y verde! ¡Gradín, globo que se va!
Billarista de esa súbita y vibrante carambola
que se rompe en las cabezas y se enfila más allá...

Y discóbolo volante,
pasas uno...
dos...
tres...cuatro...
siete jugadores...

La pelota hierve en ruido seco y sordo de metralla,
se revuelca una epilepsia de colores
y ya estás frente a la valla
con el pecho...el alma...el pie...
y es el tiro que en la tarde azul estalla
como un cálido balazo que se lleva la pelota hasta la red.
¡Palomares! ¡Palomares!
de los clásicos aplausos populares...
¡Gradín, trompo, émbolo, música, bisturí, tirabuzón!
(¡Yo vi tres mujeres de esas con caderas como altares
palpitar estremecidas de emoción!)
¡Gradín! róbale al relámpago de tu cuerpo incandescente,
que hoy me ha roto en mil cometas de una loca elevación,
otra azul velocidad para mi frente
y otra mecha de colores que me vuele el corazón

Tú que cuando vas llevando la pelota
nadie cree que así juegas:
todos creen que patinas,
y en tu baile vas haciendo líneas griegas
que te siguen dando vueltas con sus vagas serpentinas.

¡Pez acróbata que al ímpetu del ataque más violento
se escabulle, arquea, flota
no lo ve nadie un momento,
pero como un submarino sale allá con la pelota...!
Y es entonces cuando suena la tribuna como el mar:
todos grítanle: ¡Gradín! ¡Gradín! ¡Gradín!

Y en el ronco oleaje negro que se quiere desbordar,
saltan pechos, vuelan brazos y hasta el fin
todos se hacen los coheteros
de una salva luminosa de sombreros
que se van hasta la luna a gritarle allá:
¡Gradín! ¡Gradín! ¡Gradín!

Capriccio rosanero: Tomasi di Lampedusa

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Una pietra miliare nella storia del calcio italiano, pur essendo una figura anomala e del tutto particolare. Intanto per le sue origini aristocratiche, inusuali in un mondo plebeo come quello del calcio, poi per la sua personalità schiva e riservata, ma soprattutto per la singolarità della sua carriera. Nato a Palermo, fece la sua comparsa sui campi di gioco solo in età molto avanzata, quando la maggior parte dei calciatori ha già appeso le scarpette al fatidico chiodo, e vestì la gloriosa casacca rosanero per un’unica leggendaria stagione.

La fine degli anni Cinquanta era un’epoca di oriundi per il calcio italiano e all’improvviso apparve questo stagionato fuoriclasse, una mezzala dall’incedere un po’ lento e classicheggiante, ma dalla tecnica sopraffina. Di lui si sapeva poco, per non dire niente. Aveva cominciato a tirare i primi calci al pallone negli infiniti corridoi del palazzo paterno di Palermo e nella grande casa di campagna di Santa Margherita Belice, dove si favoleggiava esistesse addirittura un vero campo regolamentare. In seguito, sempre per suo conto, il giovane Tomasi di Lampedusa, aveva fatto numerosi viaggi all’estero frequentando i maggiori tecnici europei dell’epoca. Poi, più che altro per un capriccio, il suo esordio allo stadio palermitano della Favorita e l’improvvisa fama.

Così come nella vita, anche in campo era taciturno, corrucciato e tendeva a isolarsi dai compagni. Scettico verso le tattiche degli allenatori, soprattutto quelle più innovative, quando giocava dava quasi l’idea di essere un osservatore più che un protagonista della partita. Ancora oggi, in un mondo conformista come quello del calcio, Tomasi di Lampedusa resta una splendida bizzarria in gran parte misteriosa perché, come ha detto suo figlio, “era certamente un uomo di segreti”.
(2013)

George Best


George Best

Basetta sassone,
palleggio virile,
pirata numero undici
al pari del tuo compagno Morgan.

"Se Liverpool ha Paul McCartney
noi abbiamo George Best!" urlavano
le teen-agers sognanti un tuo bacio.

Col tuo cognome, il migliore,
chiudevi il tridente dei rossi
di Manchester.

Il canzoniere del Novecento di Fernando Acitelli

Klaus Augenthaler


Klaus Augenthaler

Fuoruscito dalla Guerra dei Trent'anni,
t'allineasti su sentieri di sbronza
a fronteggiar agguati palatini,
brandemburghesi, protestanti, cattolici
e della marca luterana.

Nei tornei d'Europa
il tuo volto
fu l'effigie del saccheggio,
l'alito dello stupro.

Era sui cross dal fondo
che rammentandoti dei lanzichenecchi
ponevi a ferro e fuoco l'inoffensivo
bargello.

Me Grand Turin

La Juventus è universale, il Torino è un dialetto. 
La Madama è un “esperanto” anche calcistico, il Toro è gergo



Giovanni Arpino

Me Grand Turin 
(1974)

Russ cume ‘l sang
fort cume ‘l Barbera
veuj ricurdete adess, me grand Turin.
En cui ani ‘d sagrin
unica e sula la tua blessa jera.

Vnisìu dal gnente, da guera e da fam,
carri bestiame, tessere, galera,
fratej mort en Russia e partigian,
famìe spiantià, sperduva ogni bandiera.

A jeru pover, livid, sbaruvà,
gnanca ‘n sold ‘n sla pel e per ruschè
at duvavi suriè, brighè, preghè,
fina a l’ultima gusa del to fià.

Fumè a vurià dì na cica ‘n quat,
per divertise a duvìu rii ‘d poc,
per mangè a mangiavu fina i gat,
geru gnun: i furb cume i fabioc.

Ma ‘n fiur l’aviu e t’jeri ti, Turin,
taja ‘n tl’asel jera la tua bravura,
giuventù nosta, che tuti i sagrin
purtavi via cunt tua facia dura.

Tua facia d’uveriè, me Valentin!,
me Castian, Riga, Loik e cul pistin
‘d Gabett, ca fasia vni tuti fol
cunt vint dribbling e poi jera già gol.

Filadelfia! Ma chi sarà ‘l vilan
a ciamelu ‘n camp? Jera ne cuna
‘d speranse, ‘d vita, ‘d rinasensa,
jera sugnè, criè, jera la luna,
jera la strà dla nostra chersensa.

T’las vinciù ‘l Mund.
a vintani t’ses mort.
Me Turin grand
me Turin fort




Traduzione

Mio Grande Torino

Rosso come il sangue
forte come il Barbera
voglio ricordarti adesso, mio grande Torino.
In quegli anni di affanni
unica e sola la tua bellezza era.

Venivamo dal niente, da guerra e da fame
Carri bestiame, tessere, galera,
fratelli morti in Russia e partigiani,
famiglie separate, perduta ogni bandiera.

Eravamo poveri, lividi, spaventati,
neanche un soldo sulla pelle e per lavorare
e dovevi sorridere, brigare, pregare
fino all’ultima goccia del tuo fiato.

Fumare voleva dire una cicca in quattro,
per divertirsi dovevamo ridere di poco,
per mangiare mangiavamo perfino i gatti,
non eravamo nessuno: i furbi come gli sciocchi.

Ma avevamo un fiore ed eri tu, Torino,
tagliata nell’acciaio era la tua bravura,
gioventù nostra che tutti i dispiaceri
portavi via con la tua faccia dura.

La tua faccia d’operaio, mio Valentino!
mio Castigliano, Riga, Loik, e quella peste
di Gabetto, che faceva venire tutti matti
con venti dribbling ed era già gol.

Filadelfia! Ma chi sarà il villano
a chiamarla un campo? Era una culla
di speranze, di vita, di rinascita,
era sognare, gridare, era la luna,
era la strada della nostra crescita.

Hai vinto il Mondo,
a vent’anni sei morto.
Mio Torino grande
Mio Torino forte.

Conan Doyle, o come dribblare il mastino del Baskerville FC

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Scozzese, baffuto, corpulento, protagonista assoluto nella allora First Division inglese, il più vecchio campionato di calcio al mondo, e molto popolare anche all’estero nonostante a quei tempi l’Inghilterra rifiutasse ogni contatto con le altre nazionali. Dopo varie esperienze nelle serie minori approdò a Londra, prese un appartamento al 221B di Baker Street e non si mosse più.

Dietro l’aspetto pacioso nascondeva una natura eccentrica e un’intelligenza sottile. Capostipite indiscusso del cosiddetto “calcio deduttivo”, tattica che lo ha reso famoso e tuttora seguita da uno stuolo di fedelissimi seguaci sui campi di tutto il mondo. In breve, Conan Doyle si piazzava nel cerchio del centrocampo e osservava con grande attenzione ogni particolare della partita; poi quando aveva raccolto tutti gli elementi entrava in azione, partiva palla al piede e andava infallibilmente in rete, lasciando di stucco avversari e compagni. La sua forza stava nella fredda logica con cui analizzava i movimenti dei vari giocatori in campo, senza farsi distrarre dalle indicazioni degli allenatori e dalle urla dei tifosi sugli spalti.

Durante tutta la sua carriera ha sempre voluto al suo fianco il fedele Watson, un onesto faticatore del pallone senza particolari doti tecniche, ma a cui Conan Doyle non ha mai voluto rinunciare. Al termine degli incontri, indossava la sua mantellina, si metteva in testa un buffo cappellino da cacciatore a doppia visiera e se ne tornava, sempre insieme a Watson, nello studio di Baker Street, dove trascorreva il tempo libero dedicandosi ai suoi amati hobby, suonare il violino, fumare una grossa pipa ricurva e trafficare con delle strane attrezzature chimiche.
(2013)

L'arbitro

I ritratti di Eduardo

L'arbitro è arbitrario per definizione. E' lui l'abominevole tiranno che esercita la sua dittatura senza possibilità di opposizione, l'ampolloso carnefice che esercita il suo potere assoluto con gesti da melodramma. Col fischietto in bocca, l'arbitro soffia i venti della fatalità del destino e convalida o annulla i gol. Cartellino in mano, alza i colori della condanna: il giallo, che castiga il peccatore e lo obbliga al pentimento, e il rosso che lo condanna all'esilio.


I guardialinee, che aiutano ma non comandano, guardano da fuori. Solo l'arbitro entra nel campo di gioco e giustamente si fa il segno della croce al momento di entrare, appena si affaccia davanti alla folla ruggente. Il suo lavoro consiste nel farsi odiare. Unica unanimità nel calcio: tutti lo odiano. Lo fischiano sempre, non lo applaudono mai.

Nessuno corre più di lui. E' lui l'unico obbligato a correre tutto il tempo. Tutto il tempo galoppa, sfiancandosi come un cavallo, questo intruso che ansima senza sosta tra i ventidue giocatori e, come ricompensa di questo sacrificio, la folla grida chiedendo la sua testa. Dal principio alla fine di ogni partita, in un mare di sudore, l'arbitro è obbligato  a inseguire la palla bianca che va e viene tra i piedi altrui. E' evidente che gli piacerebbe giocare con lei, ma questa grazia non gli è mai stata concessa. Quando la palla, per caso, gli colpisce il corpo, tutto il pubblico rivolge un ricordo a sua madre. E senza dubbio, pur di stare lì, nel sacro spazio verde dove il pallone gira e vola, lui sopporta insulti, proteste, sassate e maledizioni.


A volte, rare volte, qualche decisione dell'arbitro coincide con la volontà del tifoso, ma neppure così riesce a provare la sua innocenza. Gli sconfitti perdono per colpa sua e i vincitori vincono malgrado lui. Alibi per tutti gli errori, spiegazione di tutte le disgrazie, i tifosi dovrebbero inventarlo se non esistesse. Quanto più lo odiano, tanto più hanno bisogno di lui.

Per più di un secolo l'arbitro ha portato il lutto. Per chi? Per se stesso. E ora lo nasconde coi colori.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Su majestad el futbol





















Eduardo Galeano (selección y prólogo)
Su majestad el futbol

Esta antología que la editorial ARCA me ha encomendado preparar, es deliberadamente irregular. Me propuse hacer una especie de collage que incluyera variados testimonios, en prosa y en poesia, sobre el fútbol en sus diversos aspectos y proyecciones. Per eso el lector encontrará aquí reportajes, cuentos, poemas, confesiones y artículos. Los toros han tenido su Hemingway. El fútbol espera todavía al gran escritor que se lance a su rescate. Ojalá este pequeño trabajo sirva como provocación o estímulo: el desprecio y el miedo han hecho del fútbol un tema tabú casi invicto, aún no revelado en toda la posibile intensidad de las pasiones que resume y desata  (Eduardo Galeano - Montevideo, principios del 68)

1968 (prima ed.) - 2000 (seconda ed. ) | Arca (Montevideo)

Testi, fra gli altri, di Albert Camus, Mario Benedetti, Helenio Herrera, Horacio Quiroga ...


José Leandro Andrade

I ritratti di Eduardo

L'Europa non aveva mai visto un nero giocare a calcio.

Nell'olimpiade del 1924, l'uruguagio José Leandro Andrade abbagliò per le sue giocate di classe. Nella linea mediana, questo omaccione dal corpo di gomma spazzava il pallone senza toccare l'avversario e quando si lanciava all'attacco, chinando il corpo, seminava un mare di giocatori. In una delle partite attraversò mezzo campo con il pallone addormentato sulla testa. Il pubblico lo acclamava, la stampa francese lo chiamava "la meraviglia nera".

Quando il torneo terminò, Andrade rimase per un po' ancorato a Parigi. Lì divenne un errante bohémien, re dei cabaret. Le scarpe di vernice presero il posto delle calzature sbrindellate che si era portato da Montevideo, e un cappello a cilindro sostituì il suo berrettino consunto. Le cronache dell'epoca salutano l'immagine di quel sovrano delle notti di Pigalle: il passo elastico da ballerino, l'espressione sfacciata, gli occhi socchiusi che osservano sempre da lontano e uno sguardo assassino; fazzoletti di seta, giacca a righe, guanti bianchi e bastone con impugnatura d'argento.

Andrade morì a Montevideo molti anni più tardi. Gli amici avevano progettato vari festival a suo favore, ma nessuno si realizzò mai. Morì tubercolotico e nella miseria più nera.

Fu nero, sudamericano e povero, il primo idolo internazionale del calcio.

Léônidas

I ritratti di Eduardo

Aveva la stazza, la velocità e la malizia di una zanzara. Nel Mondiale del 1938, un giornalista francese del periodico Match gli contò sei gambe, e ritenne che avere tante gambe era roba da magia nera. Io non so se il giornalista francese fece caso che, oltretutto, le molte gambe di Léônidas potevano allungarsi di vari metri e si piegavano e riannodavano in modo diabolico.


Léônidas da Silva entrò in campo il giorno in cui Artur Friedenreich, ormai quarantenne, si ritirò. Ricevette lo scettro dal vecchio maestro. In poco tempo, il suo nome era già una marca di sigarette e di cioccolatini. Riceveva più lettere di un divo del cinema: le lettere gli chiedevano una foto, un autografo o un impiego pubblico.



Léônidas segnò molti gol, che non contò mai. Molti li realizzò sospeso per aria, coi piedi che giravano, a testa in giù, di spalle alla porta: era molto abile nelle acrobazie della cilena, che i brasiliani chiamano la bicicletta.

I gol di Léônidas erano così belli che anche i portieri avversari si rialzavano per congratularsi.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Stanley Matthews

I ritratti di Eduardo

Nel 1965, a cinquant'anni, Stanley Matthews provocava ancora gravi casi di allucinazione nel football inglese. Gli psichiatri non erano più sufficienti per prendersi cura delle vittime, che erano persone assolutamente normali fino al maledetto giorno in cui erano incappate in questo nonno demoniaco, che faceva impazzire i difensori.


I difensori lo afferravano per la maglia o per i pantaloncini, gli facevano prese da lotta libera o gli tiravano calci degni della cronaca nera, ma non riuscivano a fermarlo perché non riuscivano mai a tarpargli le ali. Matthews era un attaccante, che in inglese si dice winger. Wing significa ala, e Matthews fu il Winger che volò più in alto sopra la terra d'Inghilterra, ai bordi del campo.



Lo sapeva bene la regina Elisabetta, che lo nominò sir.

Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio

Le figurine "Calzini"

























Silvano Calzini
Figurine. I grandi scrittori raccontati come campioni del pallone

Cinquanta grandi scrittori raccontati come assi del pallone. Che cosa c'è di strano? In fin dei conti Hemingway con quel suo fisicone e quella sua prosa senza tanti fronzoli è un perfetto centravanti di sfondamento. Quando Garcia Màrquez ci racconta della magica Macondo sembra proprio di vederlo mentre dribbla gli avversari come birilli. Per giocare in porta non c'è niente di meglio di uno scrittore che andava per farfalle come Nabokov. E il fuoriclasse Kafka poi è stato Rivera prima di Rivera. La ricetta è semplice. Basta scorrere la bibliografia di uno scrittore, avere letto qualche suo libro, conoscerne un po' la vita e la psicologia, andare a scovare qualche tic o mania, mettere insieme il tutto, agitare bene ed ecco che viene fuori il ritratto di una splendida mezzala dai piedi buoni o di un roccioso difensore tutto grinta e ardore agonistico. Una galleria calcistico-letteraria per chi crede che la letteratura, quella vera, e il calcio, quello vero, aiutano a vivere. 

Quanta sapienza calcistica e quanta sapienza letteraria Calzini riversa nelle sue figurine! Tutto si confonderà con tutto. Le linee bianche che delimitano il campo e le aree di rigore si sovrapporranno alle righe nere che segnano le pagine dei romanzi. Una grande (e allegra) invenzione letteraria che si tramuta (tutto è metamorfosi nell’album) in una scoperta scientifica. La scoperta che gli scrittori e i giocatori sono una cosa sola, facce della stessa medaglia, che letteratura e football coincidono perché hanno, entrambe, un’identica funzione: servono a far sognare (Antonio D’Orrico)

2014 | Ink Edizioni

Recensioni
Gazzetta dello Sport | Left

L'edicola votiva

di Maurizio De Giovanni 

Ci arrivate facilmente da piazza del Gesù, lasciandovi dietro l’obelisco, faccia verso il ventre della città antica. Un pezzo di decumano inferiore, ma solo un pezzo, un paio di centinaia di metri. Camminerete per una via stretta che trasuda lacrime e risate, pezzi di Compagnone, Rea e De Filippo proveranno a distrarvi insieme a Santa Chiara e San Domenico Maggiore, ma voi continuate.

Piazzetta Nilo, detta “il Corpo di Napoli”, il nucleo greco con la mitica fonte del fiume sotterraneo Sebeto, sarà l’ultimo tentativo di fermarvi. Ancora quattro passi e ve la ritrovate sulla destra.

Magari ci sarà un po’ di gente, turisti che scattano foto ridacchiando e sfottendo nella propria lingua l’ingenuità di un popolo straccione e cialtrone, reso simpatico dalla propria manifesta inferiorità culturale.

A prima vista è uguale alle migliaia di edicole votive che punteggiano le mura dei quartieri antichi: un finto tempietto con due colonne ai lati e un transetto spiovente, l’immagine del Santo celebrato, qualche icona che ne ricorda i miracoli, addirittura una reliquia. Ma la religione romana e il martirio stavolta non c’entrano; stavolta c’entrano il Sudamerica, la vittoria e l’effimero. Sempre di fede si tratta, comunque.

Il volto santo è quello di Diego Armando Maradona, il più grande calciatore di tutti i tempi; la reliquia è un suo capello; i miracoli sono i due scudetti e la coppa Uefa.

Dover raccontare la città attraverso una sola immagine e scegliere questa è sicuramente un azzardo. Più semplice sarebbe stato andarsi a cercare uno scorcio di ordinario degrado, spazzatura, camorra, spaccio, pizzo; o anche antichi profumi, mare, sole, cozze e mandolino. Però si deve ammettere che il testacoda tra Fede ed effimero, l’accostamento cardiovascolare tra l’inutilità di un pallone e la necessità di una gioia è un modo affascinante di raccontare l’anima nuova di Napoli.

A pochi metri dal Cristo velato e da tutte le antiche sacralità, qualcuno ha deciso di dedicare un minuscolo luogo di culto a chi di recente ha erogato la maggiore gioia alla città. Si narra di un fortunato tifoso, passeggero casuale collocato dal destino e dall’Alitalia proprio dietro all’Augusto Pibe; si racconta di un gesto furtivo, col quale il suddetto tifoso abbia intascato il pannetto copripoggiatesta sul quale il Suddetto aveva dormito poco e male durante il viaggio; che dal pannetto sia stato asportato un capello riccio, lungo e nero. E’ appunto attorno a quel capello, scosso gioiosamente al vento in occasione di tanti gol, sommerso da docce di champagne dopo tante vittorie, che è sorta l’edicola.

Ad amministrarne con cura, pulizia e ordine è il barista retrostante, che in cambio raccoglie l’opportunità della consumazione dei turisti fotografi contraccambiando peraltro la cortesia con uno dei migliori caffè del mondo. Sorseggiandolo, vi prego di riflettere prima di dare frettolosi giudizi sulla supposta stupidità di un popolo che, sommerso da tante disgrazie e atrocità, si butta con tanta passione su qualcosa di vano e fuggevole. Pensate a quanto sia necessario un sorriso, una gioia per chi fronteggia la quotidiana sofferenza. Pensate a cosa abbia rappresentato ritrovarsi, una volta tanto, sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo per qualcosa che non fosse l’ennesima sconfitta sociale, ma una grande vittoria. Pensate a sei milioni di napoletani nel mondo della prima, seconda o terza generazione che piangono di gioia in silenzio, sognando una città che forse non hanno mai visto ma alla quale sentono di appartenere ancora. E a quanta saggezza ci sia nel voler tenere stretto il sacro pensiero di tutto questo.

E quando il barista, sorridendo con aria furba, vi dirà: “dotto’, ci pensate? La scienza va avanti. Magari un domani, con quel capello, Lo potranno pure clonare; così vinciamo un altro paio di scudetti!”, vi prego: valutate la possibilità di sorridere anche voi.

(2012)
Il testo è liberamente disponibile in rete qui |  Maurizio De Giovanni

Io del Real, lui del Barça


di Javier Marías (in morte di Manuel Vázquez Montalbán)

Di persona ci siamo incontrati soltanto una volta, ormai molti anni fa. Lo stesso autista ci aveva presi all'aeroporto di Asturias, (lui arrivava da Barcellona, io da Madrid) per portarci a Vérines, per un incontro di scrittori. Appena salito in macchina, tirò fuori un auricolare e se lo collocò in un orecchio; «è per seguire il calcio», fu tutta la spiegazione. 

Doveva essere un mercoledì e si disputavano delle partite di Coppa, ancora poco importanti. «Ah, e come va il Madrid?», approfittai per indagare. «Perde 1-0 con lo Sporting». Mi fu impossibile non chiedermi se la cosa gli dispiacesse. Non avevo motivi per crederlo, anche se - ovviamente - non ne avevo nemmeno per credere che fosse contento, e, difatti, non riesco a evitare di pensare che non gli avrebbe fatto piacere che io in un giorno come questo scrivessi qualcosa su di lui. Appassionato di calcio come sono, rispettai, tuttavia, il suo silenzio per l'ora e passa del viaggio e non cercai di impegnarlo in una conversazione. In fondo, pensai, io farei lo stesso, seguirei le partite, se si trattasse di quelle importanti. Cosicché, quel tragitto lo percorremmo in silenzio, non imbarazzante però. E volli credere che forse non gli era dispiaciuto - alla fine, quando dopo un bel po' di tempo mi rivolse nuovamente la parola - comunicarmi qualcosa che a lui non avrebbe dovuto far piacere, ma a me sì. 
«Il Madrid ha pareggiato», mi disse. 

Molte volte, invece, abbiamo avuto le stesse opinioni sulle pagine sportive di El País, anche se eravamo una coppia di opposti. Lui come rappresentante letterario e persino "ideologico" del Barca, io del Madrid, ogni volta che le nostre rispettive squadre si scontravano all'ultimo sangue. Credo che nell'ultima occasione sia stato io a mancare all'appuntamento, e ora so che nelle prossime chi mancherà sarà certamente lui. 

Oggi siamo molti gli scrittori che osiamo parlare di calcio senza temere di perdere il nostro prestigio, ma è indubbio che Vázquez Montalbán è stato il grande pioniere e il più audace, così come il primo a segnalare ciò che poi tanti abbiamo ribadito: è vero che si cambiano i gusti, le coppie, le convinzioni, le idee e anche le ideologie, ma non si cambierà mai la squadra di calcio preferita. 

Curioso che le fedeltà maggiori siano quelle che appaiono minori. O non tanto: immagino che lui sapesse, con la sua forte coscienza politica, l'importanza che qualcosa di tanto disprezzato come il calcio può avere nella quotidianità delle persone che hanno poco. Sapeva che se la tua squadra vince, i problemi reali non scompaiono né si patiscono meno le ingiustizie. Ma anche che, se la tua squadra perde, i problemi appaiono più gravi e irrisolvibili il giorno dopo e che pesano di più le ingiustizie. 

Conosceva e accettava la dimensione simbolica, e anche superstiziosa, perché aiuta a tirare avanti di giorno in giorno. è stato spesso un culé disperato di fronte all'inettitudine dei dirigenti o alle brutte partite del Barça. Ma, nonostante le sue occasionali minacce di smettere di seguire la squadra, o di farlo solo da lontano, immagino che questo non sarebbe mai stato del tutto possibile. Così come sapeva che il rivale più acerrimo, nel suo caso il Real Madrid, è necessario quanto l'aria, nel gioco come nella vita, per temerlo, invidiarlo, odiarlo, ammirarlo e sconfiggerlo. Oggi io so che perdere un antagonista rattrista tanto quanto perdere un alleato. Forse di più. Sono contento che Vázquez Montalbán abbia visto almeno una volta la sua squadra Campione d' Europa. E la prossima volta che ciò accadrà, sono sicuro che mi ricorderò di lui e penserò quello che anche ora penso e dico in suo onore: Visca el Barça.


"El País", 19 ottobre 2003 (En la lealtad mayor)
Trad. it. (di Guiomar Parada), "La Repubblica", 19 ottobre 2003

L’inesauribile Scerbanenco

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Di padre russo e madre italiana, nato a Kiev, ma arrivato in Italia da bambino, Giorgio Scerbanenco, grande lavoratore del centrocampo, venne ribattezzato “lo Stachanov del calcio”, un po’ per le sue origini, ma soprattutto per le centinaia e centinaia di partite disputate sempre senza risparmiarsi.

Scerbanenco abbandonò prestissimo la scuola e trasferitosi da Roma a Milano, prima di diventare calciatore professionista, ha passato anni di vera miseria facendo i lavori più disparati: operaio alla Borletti, addetto al pronto soccorso della Croce Rossa, contabile in una ditta. Ogni tanto qualche intermezzo in sanatorio, ricoverato più per denutrizione che per malattia, e dove veniva curato a suon di zabaioni.

Poi finalmente l’esordio in serie A e da allora una serie infinita di partite. Giocava sempre, comunque, dovunque. Anche quando arrivò il successo e il benessere economico, Scerbanenco gli anni duri della miseria se li portava sempre addosso. Anche nel fisico. Magrissimo, allampanato, con una faccia un po’ così, a metà strada tra Totò e Marty Feldman, il comico inglese con gli occhi a palla, lui era sempre lì a correre a perdifiato su e giù per il campo con la sua figura un po’ sgraziata, la maglia perennemente fuori dai pantaloncini e i calzettoni spesso arrotolati alle caviglie.

Gli esteti del calcio hanno a lungo storto il naso di fronte al suo modo di giocare, ma i tifosi lo hanno sempre amato perché non si dava arie da artista del pallone e si considerava solo un travet del calcio. Poi, all’inizio della stagione 1968-69, quando finalmente il suo talento era stato riconosciuto da tutti, durante una partita è stramazzato al suolo fulminato da un infarto.
(2013)

Ennio Flaiano

"L'italiano ha un solo vero grande nemico: l'arbitro nelle partite di calcio, perché emette un giudizio"



1910-1972 | Biografia

In lode a Baggio

di Giovanni Raboni

Ah suonatori di piffero,
di tamburello, di viola
state un po' zitti se vola
con penne o piume di zeffiro

nella stravagante spola
da un piede all'altro, nel vivido
organizzarsi del brivido
fra la tomaia e la suola

sezionando come un raggio
(sì, laser più che persona)
l'area non più di rigore

a distrarci dall'orrore
che senza colpa impersona
l'imponderabile Baggio.

("Epoca" 1990) | Audio

La porta davanti a sé: il centrattacco Gary

Boccaccio era il portiere
di Silvano Calzini

Se passate da Vilnius, in Lituania, è probabile che vi capiti di imbattervi in un monumento che raffigura un bambino che guarda verso il cielo, in uno spasmodico desiderio di grandezza e di assoluto. Il bambino ritratto in quel monumento si chiamava Romain Kacev e dopo una rocambolesca fuga attraverso mezza Europa insieme alla madre approdò a Nizza. Sognava un futuro radioso, prese la nazionalità francese, assunse il nome di Romain Gary (gari in russo significa brucia) e diventò il bomber dei “bleus”.

Un vero centravanti di sfondamento come non ce ne sono più ai giorni nostri. Aveva un modo di giocare che trascinava il pubblico. Senza troppi calcoli, partiva e si lanciava nel cuore della difesa avversaria. Forte, coraggioso, resisteva alle cariche più dure e sullo slancio molto spesso entrava in porta con il pallone. Protagonista assoluto sul campo di calcio e personaggio istrionico nella vita di tutti i giorni, Gary fu un grande cannoniere e un grande “tombeur de femmes”, tanto che quando gli chiedevano quanti goal avesse segnato in carriera e quante donne avesse avuto rispondeva allo stesso modo: “Non ho tenuto la contabilità degli zeri”.

In campo e nella vita sembrava spinto da una forza soprannaturale, da quella sete di assoluto ritratta nel bambino del monumento di Vilnius e che lo rendeva in apparenza invincibile. Invece era come quei cristalli che sembrano perfetti e indistruttibili, ma hanno un punto debole, che se toccato manda tutto in frantumi. Il pomeriggio del 3 dicembre 1980 Romain Gary uscì dal suo elegante appartamento nel centro di Parigi per andare a comprare una vestaglia di seta rossa. Rientrò a casa, indossò la vestaglia e si sparò un colpo di pistola in bocca.
(2012)

Quando l'elefante finalmente barrì

Una fiaba africana

C'era una volta un portiere di calcio che si chiamava Boubacar Barry. Era nato in un villaggio africano, Adjamé, che era poi stato inghiottito dalla città più vicina, che si chiamava Abidjan. Da bambino Boubacar aveva cominciato a giocare per strada, calciando con i suoi amici tutto quello che assomigliava a una palla ed era invece fatto quasi sempre di stracci. Un giorno qualcuno gli disse di mettersi in porta, cioè tra le pietre che i bambini usavano al posto dei pali. Dopo un po' di tempo, un adulto si accorse che Boubacar ci sapeva fare in quel ruolo, e lo portò a giocare in una squadra di Abidjan che giocava su un campo vero con l'erba, le porte coi pali e i palloni da calcio. La squadra aveva il nome di un fiore, Mimosas, e di quel fiore portava il colore giallo sulle maglie. La maglia di Boubacar aveva però un altro colore, un giorno azzurro un altro verde, perché lui era il portiere e i portieri portano sempre una maglia di un altro colore, perché il portiere può toccare il pallone con le mani e l'arbitro deve poterlo distinguere dai suoi compagni.

Anno dopo anno, partita dopo partita, Boubacar diventò sempre più bravo e finì a giocare in Europa, dove c'erano le squadre più forti del mondo, anche se il clima era molto più freddo che in Africa, i paesaggi avevano colori molti più tenui e, insomma, la nostalgia di casa e della mamma si faceva sentire. Ogni tanto però Boubacar tornava in Africa non solo per rivedere i suoi parenti e i suoi amici, ma anche perché era stato chiamato a far parte della squadra del suo paese, la Costa d'Avorio. La squadra aveva un nome bellissimo: gli Elefanti. Con i suoi compagni finì col girare di qua e di là, partecipando addirittura per due volte al campionato del mondo! Ogni due anni giocava anche nel suo continente per vincere una strana coppa che sembrava un fiore con tanti bulbi d'oro e un enorme pistillo. La coppa veniva assegnata alla squadra che aveva battuto tutte le altre.

Un giorno, la squadra degli Elefanti raggiunse la finale del torneo che assegnava quella coppa. Boubacar parò tutti i tiri di quella partita. Ma la partita non finì lì perché nessuna delle due squadre aveva segnato nemmeno una rete. L'altra squadra era quella dei Chipolopolo, un nome stranissimo che significava "I proiettili di rame", perché nel paese dove vivevano i suoi giocatori esistevano enormi miniere dove si scavava quel metallo, e i calciatori correvano più veloci delle pallottole. A guidare i Chipolopolo era un bel ragazzo bianco, alto e biondo, un europeo che aveva anche lui un nome buffo: si chiamava Volpe. Ed era furbissimo, infatti, come l'animale del bosco. Allenava stando appoggiato alla panchina con una spalla e non esultava nemmeno quando la sua squadra segnava un gol. Inoltre si vestiva sempre con una camicia bianchissima, nella quale sembrava l'unico a non sudare in quel continente dove faceva sempre caldo, anche di notte. La Volpe aveva teso una trappola agli Elefanti: li aveva fatti correre sul campo per tutta la partita, per stancarli, stando attento che non segnassero nemmeno un gol. In questo modo la vittoria sarebbe stata assegnata ai calci di rigore. Boubacar si trovò così a dover parare 9 rigori di fila: ma ci riuscì una sola volta. Anche i suoi compagni ne tirarono 9, ma ne sbagliarono due. E la coppa la vinsero i Chipolopolo e il loro allenatore inamidato. Fu una delusione grandissima per Boubacar e per i suoi compagni, per i loro familiari e per i loro amici, e per tutti gli abitanti del loro paese. Che piansero per giorni fino a che ad uno di loro non venne in mente un'idea: perché non prendersi loro come allenatore, per il torneo successivo, il signor Volpe? Tutti dissero di sì, anche il signor Volpe, al quale, sotto sotto, un po' era spiaciuto che gli abitanti del paese di Boubacar avessero pianto per tanti giorni.

Ve la immaginate una squadra di Elefanti neri guidata da una Volpe bianca? Potenza e astuzia messe insieme. Infatti, dopo qualche anno, al torneo che assegnava nuovamente la strana coppa che sembrava un fiore con tanti bulbi d'oro e un enorme pistillo, la Volpe e gli Elefanti giunsero a disputarsi la finale contro le Stelle Nere, il nome un po' da sbruffoni che si erano dati quelli della squadra del paese vicino alla Costa d'Avorio, il Ghana, che aveva sempre guardato dall'alto verso il basso i loro confinanti perché loro sapevano parlare la lingua inglese e gli altri no. Anche questa volta la Volpe pensò che la cosa migliore da fare fosse quella di lasciar correre e stancare le Stelle Nere, stando attenti a non prendere nemmeno un gol. Con un po' di fortuna, gli Elefanti riuscirono nell'impresa: durante la partita, infatti, le Stelle nere colpirono per due volte i pali della porta di Boubacar. Fosse come fosse, la vittoria sarebbe stata assegnata anche questa volta ai calci di rigore.

Questa dei rigori era una storia ricorrente per gli Elefanti. Quando aveva 12 anni, Boubacar aveva visto alla televisione un'altra finale tra gli Elefanti e le Stelle Nere: era stata una partita lunghissima, che non finiva mai, e che era terminata anch'essa ai calci di rigore; ogni squadra ne tirò addirittura 12, e quando a una Stella Nera che si chiamava Baffoe toccò di dover tirare per la seconda volta il proprio rigore, il portiere degli Elefanti glielo parò. Quel portiere si chiamava Alain Gouaméné. Mentre tutti intorno a lui facevano festa, in casa e per le strade, Boubacar pensò fra sé: "come sarebbe bello se un giorno toccasse anche a me parare un rigore come ha fatto Gouaméné e potessi far vincere anch'io la squadra del mio paese per una seconda volta. Così farei felici i miei parenti, i miei amici e tante tante altre persone".

Quel giorno arrivò 23 anni dopo. Boubacar aveva ormai compiuto 35 anni e quasi non sperava più che il suo sogno di bambino potesse avverarsi. Durante il torneo aveva sempre giocato in porta un suo compagno più giovane, molto bravo anche lui, che si chiamava Sylvain Gbohouo. Però, durante la semifinale, Sylvain si infortunò e Boubacar ritrovò il suo posto tra i pali come numero 1, come indicava anche il numero della sua maglia. Che era azzurra. Mentre quella dei suoi compagni era arancione e verde, come i colori della bandiera del loro paese. Giunti ai rigori, due suoi compagni di squadra pensarono bene di tirare subito sulla traversa e fuori dalla porta i propri tiri. Dopo due turni gli Elefanti sembravano spacciati! Fu allora che Boubacar sfoderò il suo carattere: parò un rigore e ipnotizzò a tal punto un altro avversario che anche costui calciò il pallone fuori dalla porta. Dopo quattro turni la situazione era tornata in parità! A quel punto avrebbe perso chi avesse sbagliato. Boubacar sfiorò con le mani per due volte i tiri degli avversari, e tanta era la sua rabbia per non averli parati e la tensione che aveva addosso che cominciarono a fargli male le gambe. Dopo dieci turni, tutti i giocatori avevano tirato il proprio rigore, e il risultato era ancora in parità: 8 a 8! Adesso sarebbe toccato ai portieri tirare a loro volta.

Tutti intorno a loro speravano e, al tempo stesso, avevano paura: i compagni di squadra, gli allenatori, anche la Volpe impassibile, i massaggiatori, i magazzinieri, i tifosi in tribuna, quelli a casa davanti alla televisione. Alcuni addirittura pregavano. Tutti erano stravolti dalla tensione: la strana coppa simile a un fiore (neanche poi tanto bella a dire il vero) era a portata di mano, ma poteva nuovamente sfuggire per un errore o una prodezza. Per un caso della vita. Un compagno di Boubacar, che veniva chiamato Gervinho (per soprannome, in realtà si chiamava Gervais Lombe Yao Kouassi), e che aveva sbagliato proprio l'ultimo rigore della serie contro i Chipolopolo qualche anno prima, aveva chiesto di essere sostituto prima della fine della partita per evitare di doverne tirare un altro ancora una volta in vita sua. Di più, mentre tutti i compagni di squadra guardavano verso la porta che l'arbitro aveva scelto per la sequenza dei rigori, Gervinho si era seduto dietro alla panchina in modo da non vederli nemmeno tirare, tanta era la sua paura di perdere nuovamente. Ma il compagno che lo aveva sostituito, Gadji Tallo, aveva mandato lo stesso alle stelle il pallone del suo rigore ...

Venne così il momento di gloria per Boubacar. Toccò per primo a lui provare a parare il rigore del portiere delle Stelle Nere. Costui si chiamava Brimah Razak e si era fatto scrivere il nome sulla schiena usando la zeta di Zorro (la "ç"), un eroe mascherato e spadaccino capace di imprese impossibili, come quelle che ogni portiere sognerebbe sempre di saper compiere. Lo sapete cosa significa Zorro in spagnolo? Volpe. Che coincidenza, vero? Ma questa volta Boubacar si dimostrò più forte di tutte le volpi e di tutti gli zorri di questo mondo. E parò il tiro. A momenti venne giù lo stadio dall'emozione. Anche Boubacar rimase a terra con le lacrime agli occhi per qualche minuto, paralizzato dalla emozione. Tanto che l'arbitro alla fine lo dovette ammonire con un bel cartellino giallo per farlo alzare.

In realtà Boubacar aveva un po' paura anche lui di dover tirare il suo rigore. Le gambe gli facevano male e temeva di non farcela. Ma come tutti gli eroi affrontò le sue responsabilità. Prese la rincorsa e tirò nell'angolo alla sua destra: il portiere avversario si tuffò dall'altra parte e Boubacar credette di morire tanto gli batteva il cuore dalla gioia. Dopo qualche istante fu soffocato dagli abbracci e dalle urla dei suoi compagni che lo schiacciarono per terra sotto una montagna di corpi eccitati, sudati e pesanti. In particolare, quello del suo capitano Yaya Touré, un vero elefante, era davvero pesantissimo. Ma la gioia e il trionfo erano tali che non se ne accorse nemmeno. Gli Elefanti erano di nuovo campioni d'Africa, per la seconda volta, dopo tanti anni e tante delusioni! E Boubacar era l'eroe che aveva dato la vittoria a un intero paese! I suoi compagni lo portarono in trionfo. Quando venne il suo turno di sollevare la coppa, che in quel momento - che strano - gli parve bellissima, Boubacar la alzò con le braccia tese verso il cielo, verso quella notte nera come il suo continente, e si sentì il portiere più felice della terra. Prese fiato un attimo. Poi, finalmente ... Barry.

Azor

Emilio Butragueño


Emilio Butragueño

Putto all'Escorial,
Infante ben riuscito,
quasi un'offesa
per picari e nanetti.

E il Secolo d'Oro
si riaccende.

L'inganno è un ingegno
estremizzato e tu, ingegnoso,
agli avi t'adegui.
Ogni tua storia è "maldestra"
sulla fascia destra, complici
Valdano e Hugo Sanchez.

Sei l'avvoltoio storico
che qualcuno vide
- bianco e bello -
forse apparso in sogno
a Góngora ...

Lo stendardo del Real
reclama ancora hidalgos
più o meno erranti,
di certo goleador.